Quell'antico "fai da te" della musica hardcore: l'amarcord è anche salentino

Quell'antico "fai da te" della musica hardcore: l'amarcord è anche salentino
di Ennio CIOTTA
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Venerdì 2 Luglio 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 07:40

C’è anche una forte rappresentanza pugliese nel libro “Disconnection, l’hardcore italiano negli anni Novanta” scritto da Giangiacomo De Stefano e Andrea Ferraris e appena pubblicato dalla casa editrice Tsunami. L’hardcore è molto più di un genere musicale: è il collante che, fin dagli anni Ottanta, riesce a costruire una vera e propria scena intorno a una musica veloce e distorta con testi intrisi di messaggi politici e sociali. Non si può ridurre un fenomeno di così vasta portata a una descrizione didascalica di persone e luoghi. Nel libro, come nelle migliori occasioni fornite dall’editoria corale, la scena racconta se stessa attraverso ricordi ed emozioni. 


Il passaggio fra gli anni Ottanta e i Novanta segna una decisiva svolta nella scena italiana e internazionale. Il retaggio delle grosse band italiane come Negazione (indimenticabile il loro concerto a Mesagne nel maggio del 1991) e Indigesti, famose e osannate negli anni in tutto il mondo per il loro spirito pionieristico, lascia spazio a tematiche inedite e nuove sfaccettature. Una scena totalmente eterogenea che, partendo dagli stessi identici ingredienti, riesce a produrre e condividere infinite reazioni differenti. Band, centri sociali, locali, dischi autoprodotti, tour in furgoni scassati, lettere scritte a mano e una grande voglia di riconoscersi per appartenersi. L’Italia è un’unica grande provincia che cerca riscatto e voglia di distinguersi dall’omologazione culturale. L’attitudine e il senso di appartenenza sono proprio i fattori che mantengono viva una scena che, sulla carta, non avrebbe modo di esistere (Chi ascolta quel genere? Chi produce quei dischi? Chi li compra?) e invece arruola entusiasmo e devozione nonostante tutte le difficoltà del caso.
Il “do it yourself”, cioè il produrre e gestire in autonomia ogni singolo passaggio riferibile al movimento (dischi, concerti, tour, fanzine cartacee, serigrafia) continua a prendere piede in maniera rapida in tutto lo stivale e arriva a costruire e formare coscienze e modi di fare. Non è più solo un gioco per ragazzini che amano la musica violenta.


Ma se il centro e il nord Italia, visti i numeri del fenomeno, riescono a offrire linfa vitale a questo processo grazie ai concerti di grosse band internazionali capaci di creare grossi alveari di consenso, partecipazione e, perché no, di imitazione del fenomeno, il sud Italia in quegli anni prima del nuovo millennio affronta la sfida in maniera differente, con un carico di responsabilità molto pesante e una visione di gioco piegata da una realtà circostante meno pronta al confronto.
«1996. Nei paesini del sud Italia mentre Colpo Grosso, Andreotti, la Sacra corona e le Spice Girls impazzavano, la nostra ragione di vita era correre con lo skateboard, demolire vecchi fabbricati e rubare dai cantieri per costruire rampe e palchi per suonare punk hardcore.

Era come bruciare di vita», ricorda Stefano Manca, attualmente proprietario e deus ex machina del Sudestudio di Guagnano (uno degli studi di registrazione più famosi e ricercati dalla scena indipendente europea e non solo), ma soprattutto bassista dei mai dimenticati Suburban Noise, una band punk hardcore nata nella più profonda provincia salentina e citata più volte nel libro.


Un capitolo a parte, e non solo nel libro ma in tutta la scena internazionale, lo meritano poi l’impegno e l’entusiasmo della Rumble Fish Corporation di Fasano, nata intorno alla figura di Antonello L’Abbate, cantante degli storici Shock Treatment, una delle band rumorose pugliesi più apprezzate e attive dell’epoca.
Lo stesso Antonello L’Abbate nel libro racconta: «Noi eravamo do it yourself per volontà e non per sfiga (come si diceva allora), nel senso che la nostra era una scelta politica e di attitudine. Non ci interessava il circuito Arci o simili, non eravamo indipendenti perché era figo, suonavamo roba nostra abbastanza incatalogabile nel giro punk hardcore e ne eravamo fieri. Certo, al sud le difficoltà erano maggiori, con pochi posti per suonare e, in genere, pochissime possibilità di confronto con altre band, almeno quando abbiamo cominciato: il nostro primo disco uscì nel 1993 e credo che in pugliese non ce ne fossero molti altri di dischi autoprodotti. Comunque il fatto di essere un po’ fuori dal circuito e dalle scene che contavano (tipo la scena emo, quella straight edge, l’hardcore e poi il Veneto, Torino, Milano, Roma) e di non essere nemmeno una realtà metropolitana (con Bari avevamo rapporti, ma alla fine noi restavamo “i provinciali”) ci permise di riuscire a sviluppare un nostro stile sia musicale che nei suoni. Ma anche nel modo di organizzare i concerti, nel distribuire i dischi e nel produrli. Avevamo un modo nostro modo di fare le cose, un po’ mutuato dal fatto di essere meridionali (e provinciali, isolati) e di non essere obbligati a essere inseriti in una scena, in uno stile, in un modo di fare. Avevamo un nostro stile: la cosiddetta Fasano Dc». Lo spunto è stato dato e la lettura di questo lavoro è indispensabile per comprendere i giorni nostri.

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