Pepito, principe artista. Una vita a ritmo di Jazz

Pepito, principe artista. Una vita a ritmo di Jazz
di Luana PRONTERA
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Mercoledì 23 Novembre 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 07:10

Quando parliamo del Jazz e dei suoi formidabili interpreti vengono in mente i musicisti di colore americani che hanno contribuito alla nascita e alla diffusione di questo genere musicale particolarmente apprezzato e ascoltato in tutto il mondo. Il ritmo unico e profondo del Jazz attraversa le pagine di un recente libro dal titolo “Pepito. Il principe del Jazz” edito da Minimum Fax e scritto da Marco Molendini, storica firma del Messaggero. Molendini dedica all’amico più di 200 pagine piene di stima e affetto.

«Ho scritto di lui perché l’ho conosciuto e gli ho voluto bene. Era una persona affettuosa che mi ha fatto conoscere e innamorare della musica. La sua passione era contagiosa. La sua vita interessante», spiega subito il giornalista, di origini pugliesi, ricordando il primo incontro con l’artista. «Ci siamo conosciuti in un locale ai Castelli di Roma. Io ero uno spettatore. Siamo diventati molto amici e nel tempo è divenuto un punto di riferimento per intere generazioni di musicisti e appassionati».

Una profonda e irrefrenabile passione per la musica Jazz

Nel suo libro Molendini ripercorre la vita di Pepito Pignatelli raccontando l’incredibile e affascinante storia di un batterista appassionato di Jazz e delle sue folli imprese per portare nella capitale la musica che considerava la più bella del mondo. Un volume denso di dettagli che conduce il lettore per mano nella Roma della seconda metà del Novecento rievocando l’inarrestabile energia della vita capitolina e dei magici ambienti della “Dolce vita”.
Molendini tratteggia un ritratto multi prospettico del personaggio. Pignatelli, nobiluomo per natali, nasce in Messico da padre donnaiolo e dissipatore. Nasconde il suo cahier nobiliare, mentre mostra senza indugio la sua profonda e irrefrenabile passione per la musica Jazz. Cresciuto nel periodo del fascismo, Pepito Pignatelli si nutre di note e musica fino a diventare un personaggio leggendario in quanto, negli anni Cinquanta, fonda il primo Jazz club italiano: il Mario’s Bar.

Il carcere per droga, poi l'incontro con Maria Giulia Gallarati, detta Picchi

«Pepito era allenato a fare debiti. Non aveva mezzi di sostentamento, benché provenisse da una famiglia nobile, perché il padre aveva dissipato tutto. Così lui scelse di seguire e alimentare la propria passione per la musica cercando ogni espediente possibile per finanziarsi», racconta il giornalista, che continua: «Da giovane finì sulle pagine di tutti i giornali perché venne arrestato per uso di cocaina a seguito della promulgazione di una legge che ne vietava l’utilizzo oltreché lo spaccio. Restò in carcere un paio d’anni poi incontrò una donna dell’alta borghesia romana, Maria Giulia Gallarati, detta Picchi. Lei, donna bellissima e complice, divenne sua moglie, un’ancora di salvezza per la sua esistenza».

Era il 1959.

Anche Picchi, come Pepito, era appassionata di Jazz e così i due sono stati protagonisti e propulsori di quella musica ritmata e capace di infiammare e accendere il popolo della notte diventando punto di riferimento di intere generazioni di musicisti e attraendo appassionati e critici alla loro “corte”. Pepito aprì, in seguito, altri due locali il Blue Note prima e il Music Inn dopo. In quest’ultimo hanno suonato musicisti dalla caratura internazionale come Chet Baker, Gato Barbieri e Dexter Gordon.

La vita di Pignatelli corre in parallelo con quella di un’intera nazione che risorge dalle ceneri del dopoguerra per scoprire un nuovo e lungo periodo di benessere. Artistica eccentrico, brillante, visionario, venne definito dalla stampa “il principe batterista”. Nei suoi locali fece suonare artisti giovani e promettenti che grazie a lui spiccarono il volo, Danilo Rea, Enrico Pieranunzi, Roberto Gatto e tanti altri. 

Tentò di vendere dadi da brodo al Vaticano

Molendini, nel suo fitto volume, tesse una narrazione cucita con racconti dettagliati, puntuali, profondi. Dalle retate della polizia a quella volta in cui provò a vendere i dadi da brodo al futuro Papa Paolo VI.
«Siccome non aveva mai una lira, era alla continua ricerca di idee sempre nuove per svoltare. Soprattutto dopo il matrimonio con Picchi i suoceri gli facevano pesare il fatto che vivesse sulle loro spalle. Così un giorno Pepito decise di recarsi in Vaticano dove lo ricevette il Cardinal Montini, poi eletto Papa. A lui chiese intercessione per poter vendere forniture di dadi da brodo ai conventi. Una figuraccia, raccontava in seguito agli amici con il sorriso e la faccia tosta che lo contraddistinguevano».

Curioso un altro aneddoto che racconta il rifiuto di un’eredità importante che la zia gli avrebbe lasciato volentieri. «Quella zia rappresentava il ramo ricco della famiglia, uno dei maggiori contribuenti di Roma - continua Molendini - gli avrebbe lasciato tutto offrendogli una vita agiata, tranquilla, comoda; in cambio però gli chiedeva di troncare con il mondo della musica e con quegli ambienti. Lui si infuriò e rifiutò. La musica per lui era davvero tutto e se avesse avuto quei soldi li avrebbe investiti tutti nel Jazz»,” conclude il giornalista.

Il libro è arricchito da un’ampia sezione fotografica con immagini e documenti inediti che ricostruiscono gli aspetti più intimi e familiari del personaggio allargando lo sguardo sulla società di quegli anni. Le pagine del volume di Marco Molendini lasciano emergere il ritratto di un musicista all’interno della Roma degli anni Sessanta e Settanta. Una città di intellettuali, artisti e cineasti, una città, ormai scomparsa, in cui tutto sembrava possibile.

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