Crisostomo: «Il Sud mi ha formato, fondamentale l'apertura al mondo. Enel? Un onore presiederla nella fase di transizione energetica»

Crisostomo: «Il Sud mi ha formato, fondamentale l'apertura al mondo. Enel? Un onore presiederla nella fase di transizione energetica»
di ROSARIO TORNESELLO
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Domenica 12 Luglio 2020, 15:42 - Ultimo aggiornamento: 15:47
Si torna al Sud. Anche un fine settimana è vacanza. Il sole, il mare, la pandemia che allenta la morsa, soprattutto, almeno qui, per quanto non sia il caso di abbassare la guardia, sfilare la mascherina, deporre l’amuchina. Intanto la tramontana ha smesso di soffiare, ma se il vento cala l’umidità rimane e così il termometro sale. La temperatura percepita è quella che conta. E la percezione è sempre variabile importante, giacché determina l’azione. Comunque, si torna a casa e la casa è dove hai le radici. E se le radici le hai ben salde nel cuore allora casa è dappertutto ma soprattutto lì, dove sei nato e cresciuto. Tornarci è concedere un battito d’ali al cuore. Lo puoi chiamare “pieno di energia”, ma se all’altro capo del telefono c’è il presidente Enel la frase suona quantomeno comica. Perciò, meglio evitare.
Avvocato Michele Crisostomo, come va?
«Bene. In auto diretto a Tricase, dai miei figli. Sono lì in vacanza, nel mio luogo d’origine».
Dove vive per il resto dell’anno?
«A Milano. Ma dopo la nomina all’Enel faccio il pendolare con Roma».
La sua designazione al vertice della più importante società energetica è arrivata in pieno lockdown.
«È stata una grande felicità in un momento di difficoltà collettiva. Un’iniezione di fiducia che spero di poter restituire al Paese. L’indicazione è del 20 aprile; l’assemblea di nomina circa un mese dopo, il 14 maggio, quasi all’inizio della fase 2. È stato il primo viaggio in auto da Milano a Roma, dopo la quarantena».
Avrà attraversato un’Italia sconsolata e deserta.
«Nessuna vettura in circolazione. Una sensazione particolare. Prima la vita era piena zeppa di spostamenti. La pandemia ci ha costretti a restare a casa. Milano, poi, ha avvertito per intero la gravità dell’emergenza».
Come ha vissuto quel periodo?
«Avvolto da un’atmosfera cupa e mesta, con tutte quelle persone ricoverate in gravi condizioni. Sono state settimane terribili. Tutto molto irreale eppure drammaticamente vero».
Quel viaggio a Roma è stato un ritorno alla vita.
«Nella capitale ho trovato pochissime persone in ufficio: Enel ha applicato in modo rigoroso lo smart working. Presenze centellinate: questo mi ha consentito un ingresso a piccoli passi. Conoscere le persone poco alla volta ha favorito maggiore profondità e intesa».
Tra tutti, l’amministratore delegato Francesco Starace.
«È stato un approccio molto coinvolgente dal punto di vista umano. Ho avuto il privilegio di un’interazione diretta nel corso di riunioni in cui eravamo presenti, fisicamente, solo noi due. Un vero onore poter essere guidati da lui nell’inserimento in una società con decine di migliaia di dipendenti».
Enel era un mondo a lei sconosciuto?
«Avevo ben presente la sua importanza: è la più grossa società italiana quotata in Borsa e la seconda utility al mondo per capitalizzazione. Sono avvocato, ho uno studio associato divenuto un punto di riferimento in molteplici ambiti, con sedi a Roma, Milano e Londra. Tuttavia da fuori non si ha contezza delle dimensioni preponderanti dell’azienda. Standoci dentro, al contrario, puoi capire esattamente cos’è».
Ecco: cos’è?
«Una realtà molto articolata geograficamente. È la principale società elettrica in Italia, ma anche in Spagna e in Cile, con insediamenti significativi in Argentina, Brasile, Colombia e Perù e presenze importanti nel settore delle energie pulite negli Usa. Al netto del fatto dimensionale, Enel è la società che spinge e trascina la transizione energetica, e non solo in Italia. A livello globale, è quella che ha investito maggiormente nell’innovazione. In più, è il primo operatore al mondo per le rinnovabili. Una chiarezza di visione sul futuro impressionante».
Nell’immaginario collettivo ha un’aura “green” più sfumata, diciamo. Perché, secondo lei?
«La spinta alla decarbonizzazione e l’impulso alle rinnovabili dimostrano la volontà di dare seguito agli accordi sul clima raggiunti a Parigi nel 2015. Enel opera per preservare le risorse anche nel lungo periodo. Con un’idea non solo filosofica ma anche operativa e concreta».
Lei è nato e cresciuto nel Salento. Sa cosa vuol dire da queste parti la presenza di una centrale a carbone come quella di Cerano.
«La risposta è nel progetto di decarbonizzazione programmato entro il 2025, con la riconversione a gas degli impianti della “Federico II”. Lo spegnimento del primo dei quattro gruppi a carbone già a inizio 2021 è, in questo senso, quanto mai significativo. Abbiamo una missione molto chiara: il valore aziendale, anche dal punto di vista industriale, va coniugato con quello che si genera nella comunità in cui si opera. L’utile societario deve essere anche utilità sociale».
Verrà rispettata la scadenza del 2025?
«Siamo in anticipo sui nostri obiettivi. Per me è una sorta di cardine emotivo leggere questa nuova strategia operativa alla luce del fatto di essere cresciuto a Tricase, nel Salento, a pochi chilometri da Cerano».
Le sarà già capitato di passare, ormai presidente Enel, accanto all’enorme camino della “Federico II”. Cos’ha provato?
«In considerazione del processo in atto, mi rincuora la possibilità di dare un contributo a un progetto essenziale per tutti, e soprattutto per chi vive in quest’area. Il “green new deal”, l’utilizzo delle rinnovabili, la rimozione di qualsiasi elemento non sostenibile nel lungo periodo: tutto questo mi dà la certezza di essere sulla strada giusta. La bellezza di questa nostra terra è nei connotati di integrità da associare a una strategia capace di preservare, per chi verrà dopo di noi, un paesaggio dal fascino straordinario. Ecco: ho la fortuna di presiedere una società che di tutto questo fa un vessillo, non solo in Italia».
Si aspettava l’incarico?
«Il mio percorso professionale è costellato di situazioni molto complesse, in cui è necessario capire come funzionano le grosse società, soprattutto in uno scenario globale. Il ruolo cui ho avuto l’opportunità di accedere è coerente con il mio curriculum».
Da dove è partito?
«Papà avvocato, mamma insegnante di Scienze al liceo di Tricase. Una famiglia come tante, con ottima cultura. La centralità, per tutti, è stata la scuola. Non ho mai vissuto complessi rispetto a nessuno: le scuole, nei nostri paesi salentini, sono istituzioni che formano. E io le ho frequentate tutte, fino alla maturità, prima di iscrivermi a Giurisprudenza a Bari. C’è un tratto umano, una sorta di tenacia antropologica, pur essendo noi delle persone miti. Tanto nella formazione quanto nel lavoro, non molliamo. La scuola mi ha dato quanto mi serviva».
Qualcosa mancherà da queste parti, non le pare?
«Bisogna fare uno sforzo per applicare l’apertura mentale che già c’è verso il mondo: occorre essere curiosi, guardare oltre l’orizzonte stretto del paese. Non perché non abbia centralità nella vita di ciascuno: quello che viviamo nei nostri borghi può essere formidabile e irripetibile solo in un contesto ampio di interessi, di coraggio, di altruismo. E anche di capacità di adattamento alle situazioni nuove. Su questo noi salentini abbiamo diverse carte da giocare».
Ne fa una questione genetica...
«Ne faccio una questione di comunità. Il senso identitario si radica in una terra bella. Essere abituati alla bellezza porta a conservarla e a trasmetterla. Ma abbiamo anche un forte senso di accoglienza. Esiste un modo tutto nostro di vivere, e in fondo di essere, che consente notevoli salti in avanti. Pure nella spinta ad andare fuori».
È importante anche ritornare, però.
«Lo si può fare in tanti modi. C’è un profilo emotivo e affettivo, che ti porta a cercare gli odori e i sapori di casa anche al nord. Poi c’è un ritorno fisico: i miei figli, Livia, 15 anni, e Giovanni, 12, sono legatissimi ai miei fratelli, a mio padre. E qui ritorna il senso della comunità: nati e cresciuti a Milano, percepiscono con nitidezza questo vincolo ancestrale con le persone e i luoghi. Il ritorno fisico non è necessariamente presenza costante. E poi c’è un ritorno di riflesso: buoni esempi per dimostrare ai ragazzi che studiare nelle nostre scuole, crescere tra le nostre strade e piazze, può essere un vantaggio».
Andare, tornare. C’è una terza via: restare.
«Le qualità e i valori non cambiano: chi va via non deve essere migliore di chi rimane e viceversa. Una visione europea, una buona contaminazione culturale sono necessarie per svolgere al meglio qualsiasi attività. L’attenzione al mondo va esercitata anche restando in paese».
Lei è ottimista?
«Sì. Tornando ogni anno nel Salento, vedo tantissimi ragazzi in gamba che crescono qui, studiano fuori, ritornano, con uno scambio che arricchisce tutti. Siamo legatissimi alla nostra terra: viene naturale iniettare nella comunità di origine quegli elementi innovativi necessari a crescere meglio. Nelle nuove generazioni vedo una maggiore attenzione al paesaggio, all’ambiente».
Cosa ci insegna la pandemia?
«Che non siamo impermeabili alla globalizzazione: nel bene e nel male, qualsiasi fenomeno va affrontato con strumenti logici di analisi, con coerenza rispetto alle conoscenze».
Da queste parti abbiamo fatto le prove generali, e male, con la xylella.
«È un colpo al cuore vedere le distese di ulivi ridotti a scheletro. Un’epidemia affrontata più con pregiudizi che con metodo scientifico».
Il coronavirus ha messo in luce carenze strutturali importanti.
«Il digital divide sicuramente. Tuttavia ha anche impresso una spinta notevole ad alcuni processi. Enel aveva già investito molto in questo, creando con Open Fiber una rete aperta alla competizione tra gli operatori di telecomunicazione. La pandemia ha messo sotto stress tantissimi aspetti della vita quotidiana. Il nostro osservatorio, da questo punto di vista, è privilegiato, arrivando fino al Brasile e agli Stati Uniti. Capisci quanto sia fondamentale avere un efficace stato sociale, dalla scuola alla sanità. Abbiamo fatto enormi sforzi per colmare le lacune, ma anche dimostrato grandi capacità».
Come torneremo alla vita “normale”, ammesso esista un canone di questo tipo?
«Dovremo riflettere sullo smart working, investire sulla digitalizzazione del paese, puntare sulla sostenibilità dei progetti. Sono queste le condizioni che consentono di affrontare al meglio, con una velocità di reazione maggiore, i cosiddetti “cigni verdi”: fenomeni imprevedibili che tuttavia rientrano nel novero delle possibilità. Se siamo intelligenti, ne usciremo migliori».
Quale sarà il ruolo di Enel in questo percorso?
«Agendo sui livelli di prestazione richiesti, e sui requisiti di qualità, consentire all’intera filiera, dai fornitori ai fruitori di servizi, di evolvere lungo la stessa linea, creando valore sostenibile. Quanto agli aspetti sociali, con la onlus Enel Cuore sono stati messi a disposizione oltre 24 milioni di euro nella lotta alla pandemia, di cui un milione frutto della raccolta fondi di tutti i colleghi, compresi top manager e consiglieri di amministrazione. Sono orgoglioso del fatto che il nuovo Cda abbia accolto il mio invito a donare il 15% della propria remunerazione a favore di questa causa. Un bel modo di cominciare».
Programmi particolari per la Puglia?
«Qui è operativa una delle più grandi Smart Grid del mondo. Si chiama PAN, Puglia Active Network: una rete smart che percorre l’intera regione, favorisce l’integrazione delle rinnovabili e trasporta informazioni e dati insieme all’elettricità, garantendo una migliore qualità del servizio per i clienti. C’è grande attenzione verso questo territorio, non solo per ragioni affettive: l’estate, il mare, gli amici, la famiglia, le partite di pallacanestro sui campetti; quanti ricordi... Ma, ripeto, non è una questione personale: questa regione è un laboratorio straordinario».



 
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