Bray: «Le parole sanno tutto di noi. Scuola e sanità siano le nostre prime infrastrutture»

Bray: «Le parole sanno tutto di noi. Scuola e sanità siano le nostre prime infrastrutture»
di ROSARIO TORNESELLO
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Giovedì 16 Aprile 2020, 17:01 - Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 22:02
La foto profilo whatsapp è un manifesto programmatico. Le immagini parlano, alcune un po' di più. Lui, suo figlio e un libro aperto. L'importanza di leggere, informarsi e capire, traduciamo. Alle spalle, dei volumi su una mensola. Non è la libreria imponente che ciascuno sfoggia in questi tempi di iperconnessione spinta nel diuturno collegamento video. Ha dimensione domestica, non enciclopedica. Non incombe, non sovrasta. Va bene, la foto non è recentissima; d'accordo, risale a otto anni fa. Ok: allora lui non era ancora ministro della Cultura, accadrà di lì a poco; non ancora direttore generale della Treccani, lo sarà più avanti. Ma che importa? Ci sono valori che vanno oltre il tempo e lo spazio. I simboli non si misurano a peso, molto spesso non hanno neppure data di scadenza.
Massimo Bray, due parole e subito il primo dubbio: con o senza accento finale?
«È una lunga storia. La mia famiglia è salentina, e al sud va l'accento. Ma il mio bisnonno era emigrato in Piemonte, a Torino, per le seconde nozze, e al nord non va l'accento. Io vivo a Roma, sto nel mezzo».
La capitale è accomodante, fa un po' come le pare.
«Appunto».
Che giorni sono, questi, per lei?
«Sto a casa, come tutti. Lavoro molto. Il portale della Treccani richiede un impegno quotidiano come fosse un giornale».
Sa tanto di concorrenza.
«Diciamo quasi come un quotidiano, va bene così? Scherzi a parte, c'è il piacere di fornire incessantemente le risposte alle domande che le persone si pongono. In questo periodo soprattutto».
Di cosa si avverte maggiormente bisogno?
«Si parte dal significato delle parole per arrivare al comportamento da tenere. Epidemia, contagio, virus... All'inizio, in particolare, c'era l'esigenza di capire molto, e in fretta, in una situazione non solo inaspettata ma anche grave».
La sezione dedicata alle parole del coronavirus si apre, curiosamente, con un lemma estraneo alla pandemia: batterio. Come mai?
«Riflette lo smarrimento iniziale dei lettori di fronte a un fenomeno sconosciuto e di proporzioni inaudite. Poi le ricerche hanno affinato il raggio di azione. E siamo arrivati a pandemia, quando le dimensioni sono esplose, e a draconiano, col susseguirsi dei provvedimenti governativi contro spostamenti e assembramenti».
Quale criterio avete seguito per i vostri servizi?
«In accordo con l'Istituto superiore di sanità, abbiamo puntato sul significato di parole in grado di offrire orientamento rispetto all'evolversi della malattia, da contagio a virus fino a profilassi: lavarsi le mani, tenersi a distanza, usare la mascherina... Quando abbiamo stilato un secondo elenco di parole, sempre d'intesa con l'Iss, abbiamo registrato un cambiamento».
Vale a dire?
«Sorveglianza digitale, test sierologici, immunità di gregge... Fino all'espressione che in sé racchiude il senso di un comportamento responsabile...».
Non la dica...
«...resilienza».
...l'ha detta.
«Lo so, un po' troppo usata. Ma non è parola antipatica. Viene dalla tecnologia, indica la capacità dei materiali di resistere alla rottura. Applicata alla società e agli individui, qualifica l'attitudine a organizzare in modo positivo atteggiamenti e comportamenti. Resistenza reattiva suona meglio?».
Avvicinandosi il 25 aprile, molto.
«E poi ci sono i neologismi. Uno per tutti: infodemia, l'eccesso di comunicazione».
Crede si sia esagerato?
«No, assolutamente. Le fonti accreditate infondono fiducia. Ma infodemia è anche il riflesso dell'esigenza immediata, comune e improvvisa di orientarsi in un mondo stravolto. Migliaia di ricerche al giorno, sul sito Treccani, ci hanno spinto a pubblicare interventi e contributi di scienziati, virologi, antropologi e storici per soddisfare le richieste dei lettori. Ora, ben oltre l'informazione, emerge la necessità di avere una guida affidabile e sicura».
Ne vede, fuori?
«Mi ha colpito papa Francesco, la potenza simbolica delle immagini del Pontefice che attraversa a piedi via del Corso, a Roma, per andare in preghiera al Crocifisso invocato nel 500 contro la grande peste. E il presidente della Repubblica Mattarella, con i suoi interventi, misurati e rassicuranti, con la sua fiducia nella vittoria vicina. C'è bisogno di luce».
Però il futuro preoccupa.
«Le ricerche guardano avanti, infatti, e già riflettono la mutazione in atto. Le formule lessicali digitate dagli utenti ora sono: lavoro in sicurezza, seconda ondata...».
Ne usciamo tramortiti. Eravamo impreparati?
«Non dimentichiamo l'eccezionalità dell'evento. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha impiegato del tempo prima di parlare di pandemia».
Forse qualcosa non ha funzionato a dovere. Lei è stato uomo di governo: che idea si è fatto?
«Le politiche di questi ultimi anni hanno indebolito il sistema sanitario pubblico. La diffusa privatizzazione ha portato anche a ignorare gli allarmi dell'Oms sul rischio di epidemie ricorrenti. La prevenzione può sembrare attività non redditizia, dovremo cambiare atteggiamento».
Pubblico contro privato?
«Do grande importanza allo Stato. È un principio che ho tenuto ben presente durante la mia esperienza di ministro: in quella veste rappresentavo lo Stato ed ero tenuto a difenderlo».
Andiamo al cuore del problema.
«Le vere fonti di valore sono le relazioni umane e quelle con l'ambiente. Privatizzare, spesso, significa incrinare i rapporti sociali e mettere a repentaglio l'equilibrio con la natura. Penso al paradosso di Taranto: per garantire lavoro si è scesi a compromessi con l'inquinamento. La salute è un bene comune, globale. E i beni comuni e globali hanno diritto di cittadinanza in uno spazio nuovo, tra il mercato e lo Stato».
Anche la cultura è un bene comune, ma la pandemia la costringe all'angolo.
«Difficile immaginare quando potremo tornare in un cinema, in un teatro, in un museo. Ecco: si avverte il bisogno di un fortissimo intervento statale. La cultura innerva il senso di comunità. La reazione a un avvenimento epocale come questo parte da qui».
Veniamo da stagioni di individualismo esasperato. Ne saremo capaci?
«Torniamo a papa Francesco e al suo messaggio contro l'ipertrofia dell'io e la pervasività degli egoismi. Citando il Vangelo di Giovanni, ci ha ricordato il pianto di Gesù davanti a Lazzaro: lui sa che risorgerà, ma ne ha compassione. Neppure la fede lo mette al riparo dalla pietà».
Abbiamo infranto un altro equilibrio?
«Il rapporto tra gli uomini, e tra noi e l'ambiente, si muove lungo fili sottili e delicati. Il nostro sistema economico ha riscontrato tutta la sua fragilità: l'idea di mercificare ogni cosa è sbagliata e va ripensata. Occorrono nuove leadership per scelte fondamentali. Non possiamo assistere inermi a vertici del G20 dove non si arriva a un provvedimento condiviso per la difesa dell'ambiente. Il riscaldamento globale provocherà altre pandemie».
In molti scommettono sul cambiamento.
«Molti tra quelli pronti a sostenere che nulla sarà più come prima torneranno presto alle vecchie abitudini o tenteranno di farlo. E invece dovremmo riflettere sull'opportunità di un radicale cambio di rotta».
Lei da dove partirebbe?
«La centralità della scuola è strategica al pari di quella sanitaria. Non possiamo permetterci di avere un pezzo di Paese in sofferenza a causa del divario digitale. L'istruzione deve diventare la grande infrastruttura, e gli insegnanti i protagonisti del cambiamento. Tuttavia la svolta tecnologica impressa dagli eventi non deve farci smarrire il senso del limite: il percorso in aula è fondamentale come forma di confronto, dialogo e inclusione sociale».
E gli intellettuali? Cosa si attende da loro?
«In questi giorni sto rileggendo La tirannia del tempo di Judy Wajcman, analisi sulla necessità non solo di tornare a occuparci dell'educazione dei figli ma anche di riscoprire l'impegno civile e sociale. E pure gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. Gli intellettuali come momento continuo di critica verso tutto quanto accade. Mi aspetto questo».
Qual è stata la peggiore delle illusioni?
«Che la privatizzazione avrebbe diffuso ricchezza e uguaglianza. Non è così. Solo un grande abbaglio. Dovremmo rivedere alcuni modelli. Penso al salario minimo universale preconizzato dal Papa. Tiene conto della massa enorme di persone in difficoltà che avremo di fronte».
Da quali parole comincerà il futuro?
«Eguaglianza, inclusione sociale, cultura, comunità. E ambiente. La ripartenza, anche in chiave industriale, non potrà non essere ecologica».

 
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