«Tra padri e figli “eterni” racconto così la famiglia»

«Tra padri e figli “eterni” racconto così la famiglia»
di Eraldo MARTUCCI
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Giovedì 31 Marzo 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 08:50

Il teatro è sempre stato un formidabile strumento per interpretare la realtà, forse ancora di più rispetto a tanti trattati di sociologia. Con l’innegabile vantaggio di un linguaggio emozionale e diretto capace di far riflettere anche con il sorriso. Che è sempre stata la “mission” dell’attore, autore e regista leccese Mario Perrotta, vincitore per ben tre volte del Premio Ubu, l’Oscar italiano del teatro, e in procinto di girare il suo primo film da regista che in parte coinvolgerà il nostro territorio. Le sue drammaturgie dal forte impatto civile, da lui stesso dirette e interpretate in Italia, sono state tradotte e messe in scena anche all’estero in diverse lingue e in contesti importanti tra i quali il Festival d’Avignone e il New York Solo Festival. E nel solco della sua attitudine e predilezione per i progetti ad ampio respiro, ha dedicato una trilogia alla famiglia degli anni Duemila e alle sue più macroscopiche trasformazioni: “In nome del padre” nel 2018, “Della madre” nel 2020, e “Dei figli” al recente debutto. 

Due serate all'Apollo di Lecce

Sarà proprio quest’ultimo lavoro ad aprire le due giornate in cui sarà protagonista al Teatro Apollo di Lecce per la stagione del Comune in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese. L’appuntamento è per domenica prossima, mentre il giorno successivo sarà la volta del capitolo iniziale della trilogia, “In nome del padre”. Perrotta tornerà poi nuovamente nel Salento ad agosto, quando sarà ospite del Festival Crita di Cutrofiano con uno dei suoi spettacoli e per una settimana di laboratorio di specializzazioni per attori. In quell’occasione il suo nuovo testo in fase di scrittura lo metterà a confronto con il pubblico che lo commenterà, e il giorno dopo lo ascolterà modificato. Intanto, però, c’è questo attesissimo ritorno professionale nella sua terra dopo il periodo più complesso della pandemia, che per lunghi mesi ha significato anche la chiusura dei teatri, e che arriva in questi nuovi giorni drammatici dove ci si interroga ancora di più sul ruolo che la cultura può avere nella nostra vita.

«Il teatro non fa che rispecchiare ciò che accade nella società, e spesso anzi lo anticipa come accade in tutte le forme d’arte – sottolinea Perrotta – e una cosa che ho rilevato riprendendo a fare teatro dopo un anno e mezzo di clausura vera è che la gente ha voglia di pensare. Questo accade dopo tutte le tragedie: i grandi rinascimenti della storia vengono sempre dopo i grossi medioevi, che possono essere culturali, o dovuti a una guerra, una pestilenza o un disastro economico. D’altronde il teatro dovrebbe fare ciò che la televisione non sa fare, cioè farti riflettere e farti andare a casa carico di emozioni e di punti interrogativi sull’esistenza». 

Tra le tante domande rimane sempre centrale quella sul presente della famiglia: c’è chi parla di declino, chi di trasformazione, chi preferisce parlare di transizione. Perrotta ha affrontato questo tema in una trilogia, così come è accaduto in passato con altri lavori, tra i quali “L’individuo sociale”. «Una scelta dovuta al fatto che rivendico al teatro il diritto al pensiero lento in una società che corre continuamente e non si sa dove stia correndo – racconta l’attore - la lentezza è invece un salvavita, e io ho bisogno di indagare a lungo sugli argomenti e non mi basta lo spazio di uno spettacolo». 

La "consulenza" dello psicanalista Recalcati

Lavori peraltro realizzati con la consulenza drammaturgica dello psicanalista Massimo Recalcati, che alle relazioni familiari ha dedicato gran parte del suo lavoro: «Siamo amici da dieci anni, e quando ho pensato di voler fare un progetto sulle disfunzioni della famiglia contemporanea mi è sembrato corretto avere un supporto scientifico.

E a chi mi dovevo rivolgere se non a Massimo? Voglio anche chiarire che non è responsabile di una sola parola di quelle che vengono dette in scena, e lo dico a sua tutela. Lui si è “limitato” a lunghissime e dotte chiacchierate sull’argomento, e ogni volta mi ha raccontato le disfunzioni più presenti nei tre ruoli».

Il primo capitolo è dunque dedicato al padre. «Come tutte le mie scritture, anche questa è nata da ciò che mi fa stare scomodo sulla sedia. E gli interrogativi sulla vita diventano puntualmente drammaturgia – racconta l’attore – quando ho iniziato a pensare a questo progetto ero padre da quattro anni, e mi facevo mille domande. E vedevo che i miei colleghi fuori dall’asilo di domande se ne facevano poche. Ho voluto così descrivere la difficoltà di essere padri a prescindere dalla propria estrazione sociale e culturale, e ho perciò messo in scena tre padri diversissimi fra di loro: un dotto giornalista siciliano, un ricchissimo commerciante napoletano e un povero operaio veneto. Ma voglio sottolineare che in questi spettacoli si ride molto, magari amaramente». 

E dopo la madre, secondo capitolo della trilogia, sono ora arrivati i figli, lavoro che presenta anche in scena molte novità. «Mentre i tre padri si inscrivono tutti dentro al mio corpo e nella mia voce, per i figli siamo undici interpreti per tredici personaggi. Ovviamente nei due lavori precedenti avevo già parlato dei figli bambini e adolescenti. In questo caso invece mi soffermo su coloro che, dai diciotto ai cinquant’anni in Italia, non hanno alcuna intenzione di smettere il proprio ruolo di figlio. E questo è un problema sociale e antropologico complesso. Quindi ci sono quattro adulti mai cresciuti in scena, fra cui io, e le loro famiglie perennemente collegate in video a sorvegliare e intervenire nella loro vita».

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