«Spatriati, così racconto la generazione “incerta”»

«Spatriati, così racconto la generazione “incerta”»
di Ilaria MARINACI
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Martedì 27 Aprile 2021, 16:44 - Ultimo aggiornamento: 16:47

Con il suo nuovo romanzo, Spatriati, che esce oggi per la collana Supercoralli di Einaudi, Mario Desiati si conferma un autore perfettamente calato nel tempo presente, capace di raccontarne le evoluzioni non solo della società ma soprattutto delle sensibilità. Quelle degli animi inquieti. Questo suo ultimo libro, che arriva a cinque anni di distanza da Candore pubblicato nel 2016, affronta con la consueta scrittura incisiva, fatta di pennellate narrative dirette ed efficaci, i concetti di appartenenza, di accettazione di sé, di amicizia quella forma quasi inspiegabile ma indissolubile e di identità.

Una storia che inizia tra i banchi di scuola a Martina Franca, città d'origine dello scrittore pugliese, e prosegue seguendo la crescita dei due protagonisti, Claudia e Francesco, e tracciando il ritratto di una generazione: quella che oggi ha quarant'anni ed è andata a cercarsi il suo posto nel mondo. Claudia è solitaria ma sicura di sé, stravagante, si veste da uomo. Francesco è acceso e frenato da una fede dogmatica e al tempo stesso incerta. Lei lo provoca ma negli occhi di quel ragazzo remissivo intravede una scintilla in cui si riconosce. Da quel momento non si lasciano più. A Claudia però la provincia sta stretta, fugge appena può, prima Londra, poi Milano e infine Berlino, la capitale europea della trasgressione. Francesco, invece, resta fermo e scava dentro di sé. Diventano adulti insieme, in un gioco simbiotico di allontanamento e rincorsa, in cui finiscono sempre per ritrovarsi.

Desiati, chi sono gli Spatriati?

«Sono irregolari, incerti, interrotti, fuori dalle convenzioni, a volte disorientati, a volte liberati. La parola Spatriati in molti dialetti pugliesi ha una sfumatura che richiama questi aggettivi che ho appena elencato oltre a espatriato. Ho provato a raccontare questo tipo di identità, a cui mi sento molto vicino anche io. Nel mio dialetto ha una schwa finale, quindi è una parola neutra, come l'ho scritta all'interno del romanzo. Proprio perché non si appartiene a nulla, neanche a un genere preciso, pur avendo però un senso della propria origine fortissimo».

Cosa unisce Claudia e Francesco, nonostante siano molto diversi?

«Hanno un'identità spatriata, hanno un desiderio dell'altrove, l'una lo pratica, l'altro non sa riconoscere il suo desiderio e si fa guidare dalle convenzioni e la vita degli altri. Però ha un'anima inquieta come quella di Claudia. In fondo lei è una sua patria. Certe persone per noi sono come il territorio al quale ci sentiamo di appartenere per ragioni linguistiche, storiche e culturali. Esistono anche delle patrie umane, potrei chiamarle per comodità delle anime affini».

La passione erotica è sempre una costante nei suoi libri ma ogni volta indagata da punti di vista diversi e originali. Per questa storia quale ha scelto?

«La fluidità, la libertà di sperimentare e di trovare l'appagamento di un desiderio che non ha insegne di genere, età, cultura e religione.

Tutti possono amare tutti. Sembra uno slogan sessantottino, ma nella vita a volte ci poniamo dei limiti che confinano l'orizzonte delle nostre scelte».

Perché sono irregolari, fluidi e sradicati i quarantenni della sua generazione? Ci sono opportunità che non hanno saputo cogliere o difficoltà che hanno saputo superare?

«Il mondo è diverso da quello in cui sono cresciuti i nostri genitori o semplicemente i nostri fratelli maggiori, e i nati tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta sono i primi che hanno dovuto comunque fare una riflessione profonda sulla sostenibilità del pianeta. Non che prima non ci fosse stata, ma questa riflessione è diventata più urgente. Penso a quel movimento nato alla fine degli anni Novanta a Seattle che fu riassunto ingiustamente dalla locuzione No Global e finì a Genova stroncato non solo dai manganelli ma da una specie di oscura paura di andare fino in fondo. In quelle proteste c'era già una profezia sul mondo che stava cambiando, sulla necessità di rendere la vita, soprattutto degli occidentali, più sostenibile rispetto al pianeta Terra che ci ospita».

Da Candore sono passati cinque anni, mentre nei cinque anni precedenti aveva pubblicato quasi un romanzo all'anno. Come mai questo tempo lungo?

«Candore è stato un romanzo talmente difficile da portare a compimento che ho avuto bisogno di un po' di tempo per riannodare i fili della storia che avevo voglia di raccontare dopo e che stavo ruminando quando ero a Berlino. Necessitavo un cambio di vita, un'esperienza esistenziale rinnovata. La complessità va ponderata, l'ispirazione che attraversa tutte le persone che scrivono ha tempi irragionevoli e incalcolabili».

Secondo l'Aie, pandemia e lockdown hanno fatto crescere l'acquisto dei libri di circa il 25%. Un dato isolato o un'inversione di tendenza?

«Credo sia legato al fatto che molte persone hanno passato più tempo a casa. Anche io ho avuto la sensazione che il tempo per leggere fosse aumentato e ho comprato tantissimi libri in questo anno, anche se molti di loro aspettano ancora di essere letti».

Per chiudere, una curiosità: se fosse lei a scegliere, da quale dei romanzi degli ultimi anni trarrebbe un film?

«Candore forse è quello più adatto per la possibile location e la fattibilità della produzione, ma anche più difficile dal punto di vista politico visto le implicazioni che conseguono a chi affronta un tema tabù come le trasgressioni e le sue dipendenze».

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