Manni, tutto il bello del colpo dello Strega

I cinque finalisti del Premio Strega 2017. Da sinistra: Paolo Cognetti, Wanda Marasco, Alberto Rollo, Teresa Ciabatti e Matteo Nucci
I cinque finalisti del Premio Strega 2017. Da sinistra: Paolo Cognetti, Wanda Marasco, Alberto Rollo, Teresa Ciabatti e Matteo Nucci
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 18 Giugno 2017, 20:17 - Ultimo aggiornamento: 21:30
Fiato. Tutto d’un. Perché non è proprio facile arrivare fin qui; il Salento è un dedalo di strade e stradine orfane di indicazioni e talora di buon senso, viuzze, a volte vanno, all’improvviso vengono e per lo più sanno come far girare la testa, in certi snodi elevati a reticolo viario, ché anche il più arcigno dei navigatori satellitari, qui dove non s’è persa la speranza, perde il segnale e vabbè, sia, chissenefrega, la lingua porta ovunque, arrivarci ci si arriva e l’avventura ricomincia, perché la porta che cerchi è un mezzo mistero, quasi la bussola di una sagrestia, accanto alla chiesa dell’Addolorata, qui a San Cesario, e non c’è un’insegna, e l’unica traccia di vita è quel minuscolo adesivo accanto al pulsante (Manni, ovvio), con il logo dell’editore fatto apposta, certo bello, stilizzato, volendo enigmatico, dunque intrigante, e però, dai, a forma di croce. Suonare, prego.

Manni, 33 anni di vita (la casa editrice), fondata da lui, Piero, e da lei, Anna Grazia D’Oria, molteplici passioni, la politica, i libri, l’insegnamento, e qui traslocata dopo che la loro casa (nel senso di residenza, a Lecce) s’era trasformata in una supernova pronta a esplodere, volumi, lavoro, redazione, segreteria, tutto assieme, viavai di ospiti, e che ospiti, mentre qui, in fondo a via Umberto I, il pullulare di idee travagli impegni ha almeno gli spazi larghi dell’ufficio, anche se corridoi angusti e travi a rischio capocciata, ma sia, l’aria che tira è frizzante e qui tira aria di festa, non per gli “inquilini” che trafficano come al solito e contengono nello sguardo entusiasmo e soddisfazione, non per gli impiegati che lavorano ognuno al suo posto, non per il visitatore penna e taccuino che rende omaggio all’evento con guantiera d’ordinanza, golosità varie ma niente pasticciottini giacché il borgomastro dell’arte dolciaria, lì a due passi, li sforna e li finisce, li sforna e li finisce e passare dal posto giusto non basta se il momento non è quello giusto. È che qui, per dirla tutta, è proprio festa.

Sono per la prima volta nella cinquina dei finalisti del premio “Strega”, il migliore, il più ambìto, prima volta per loro e prima per un editore di Puglia, ossequi, fatto unico e a esser profetici anche raro, perché un po’ come Davide con Golia, non capita tutti i giorni di stendere giganti, e intanto è andata, wow, lo sguardo va oltre le parole, tesse la trama di un successo di cui leggi la gioia ma anche il sacrificio, la tenacia sopra lo sconforto dei giorni duri, perché di libri si parla, e questa regione è terra amara e avara di lettori, la peggiore d’Italia alle ultime rilevazioni, evviva, così capisci cos’è il lavoro, la forza di una squadra, e loro sono qui, tutti assieme, il quartetto attorno al tavolo, in cucina, alle spalle della tolda di comando dove le scrivanie sgomitano, anche se sempre loro sono, però qui – eh beh – qui c’è la macchinetta del caffè, vuoi mettere, l’aroma rende tutto più familiare, e al resto ci pensano i modi affabili e semplici, Piero e Anna Grazia, sorridenti, sornioni, Grazia e Agnese, le figlie, l’anima manageriale e quella editoriale, tutti artefici, tutti protagonisti, e con loro Giancarlo, sul divano, l’addetto alla promozione. Sicché oggi siamo tutti promossi. Il 6 luglio, giorno della finale a Roma, può anche arrivare.

Ce l’hanno fatta dopo aver piazzato otto volte i loro romanzi nella dozzina finale, otto volte negli ultimi dodici anni, segno che la qualità - come si dice - paga ma stavolta di più, perché “Un’educazione milanese”, il romanzo scritto per Manni da Alberto Rollo, il raffinato editor a lungo in Feltrinelli e ora in Baldini&Castoldi, qui dall’altra parte della staccionata, all’esordio letterario come autore, ha convinto una buona fetta dei 660 giurati nel meccanismo complesso dello Strega, tra “Amici della Domenica”, di cui pure fa parte Anna Grazia D’Oria col Gotha di editoria e letteratura, e lettori forti, voti collettivi, intellettuali e istituti italiani di cultura all’estero, un intrico di relazioni che altro che “traffico di influenze”, come ora si dice se qualcuno inciampa, la campagna elettorale quando arriva arriva e però qui bisogna dare atto, come scrive sul “Fatto” Giovanni Pacchiano, scrittore e critico letterario, anche lui giurato dello Strega, che ci sono editori neppure sfiorati dall’idea di raccomandarti il loro libro e nel carnet un nome speciale, uno su tutti: Manni. “Una famiglia deliziosa”, aggiunge.

Ora raccontano sia andata così, che Rollo cercasse una casa editrice utile et humile et pretiosa et casta, non proprio francescana ma quasi, “piccola, indipendente, meridionale”, per restare al testuale, e in più “all’ombra degli ulivi”, che a fare due calcoli non poteva che essere la Manni se non fosse che degli ulivi, proprio di quelli, da queste parti non rimane appunto che l’ombra, e se è così allora il discorso fila, e comunque pace, l’incontro è avvenuto perché la conoscenza già c’era, la stima anche, una certa sintonia pure (sarà per le sue radici leccesi), e perché da tipi come lui c’è solo da imparare, spiegano in cucina tra caffè e dolcetti, soprattutto quando si è trattato di valutare il progetto e firmare il contratto e poi, dopo, gestire la candidatura allo Strega, vista la presentazione al concorso firmata Giuseppe Antonelli e Piero Dorfles (alla prima da “padrino”), non che ci fosse bisogno di cotanto viatico ma male non fa, perché l’ambiente assume le sembianze di “ambientino” quando sulla bilancia finiscono velate gelosie e malcelate invidie e Rollo è stato ed è editor importante, potente ed esigente per ipotizzare unanimi consensi e lodi sperticate anche nel segreto dell’urna. Ma con 160 voti è tra i finalisti. Alè.

Venti giorni al verdetto, la giuria si rimette in moto, la casa editrice anche, ma intanto si va all’incasso con la visibilità che la vetta conquistata garantisce, e solo a guardare la rassegna stampa del post-cinquina si capisce, con ritagli di giornale ovunque, con le vendite che già si annunciano, anche se trentatré anni di duro lavoro corazzano l’umore e irrobustiscono le spalle oltre le fortune e le avversità, perché ogni giorno qui si fanno i conti - spiegano - con la perifericità logistica e la povertà “infrastrutturale” di una regione che dà molto (e molto riceve) alla musica, al cinema e al teatro ma non al libro, no, a quello poco e niente, per quanto gli editori ci siano, gli autori anche e solo i lettori latitino, sicché la filosofia dell’azienda è quella di produrre meno ma meglio, di puntare sulla qualità, sia poesia, narrativa o saggistica, e di recuperare, divertendosi, le origini e la memoria, e anche l’ultimo lavoro (“Cloffete cloppete clocchete”), intreccio di poesie studiate a scuola negli anni Sessanta, è annuncio di un nuovo successo. Nel titolo c’è Palazzeschi, ma nel suono c’è che siamo a cavallo. E che si va al galoppo.

Se capitate da queste parti saltate navigatori e pasticciotti e suonate al citofono, così, tanto per, il tempo necessario a capire cosa vuol dire fare cultura, come nasce un libro, quale lavoro c’è dietro, e per chiedere di quell’immagine come logo, presa in prestito dai graffiti di Porto Badisco, l’approdo di Enea, dalla Grotta dei Cervi, straordinaria pinacoteca del Neolitico, racconto in guano e ocra rossa di una storia cominciata quattromila anni fa e mai terminata, con quella croce che si ripete, e sempre il vuoto al centro, come a tratteggiare quattro persone intorno al fuoco, simbolo della condivisione, della conversazione. Della narrazione. Un po’ come Piero e Anna Grazia, Agnese e Grazia, seduti qui, ora, intorno a un tavolo.
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