«Da donna racconto i volti delle guerre»

«Da donna racconto i volti delle guerre»
di Eleonora MOSCARA
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Domenica 11 Settembre 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 09:38

Lucia Goracci è un chiaro esempio di giornalismo autentico e viscerale, lei che di questo lavoro ha fatto la sua vita senza mai cadere in sensazionalismi e affrontando le sfide più difficili e pericolose. Tra le migliori reporter di guerra al mondo, la Goracci è un’eccellenza del nostro Paese e ora anche corrispondente per la sede americana Rai a New York. Sarà lei questa sera in piazza Don Tonino Bello a Tricase a essere premiata dal settimanale cittadino “Il Volantino”. Un animo intrepido il suo, che l’ha portata a sfidare i più vari pericoli nei luoghi più a rischio del mondo.

Come si dovrebbe raccontare un conflitto oggi, anche alla luce dei nuovi strumenti a disposizione? 

«Proprio in questo momento storico, in cui abbiamo l’impressione di poter sapere tutto delle guerre dal divano di casa, ha senso raccontare le guerre da vicino. Internet è come un Aleph di Borges e cioè dà l’illusione di controllare tutto in un’unica unità di spazio e di tempo ma, guardando le storie solo da lontano si tende a un concetto di verità, mentre da vicino ci si limita a puntare alla ricostruzione dei fatti. Io tendo ad essere molto diffidente nei confronti di chi cerca verità nelle guerre, le verità sono dei filosofi o degli uomini di fede, noi reporter di guerra dobbiamo invece ricostruire i fatti. I nostri punti di vista sono limitati, l’effetto propaganda è conclamato ma spesso surrettizio e strisciante e noi possiamo solo aspirare ad una verità approssimativa, nella misura in cui ci avviciniamo ad un accadimento. Il giornalista ha solo una luce nel pellegrinaggio delle guerre che segue e cioè il proprio pregresso e l’onestà intellettuale. Lo sforzo che bisognerebbe fare, da Erodoto ai giorni nostri, è sempre solo quello di andare a vedere la situazione il più vicino possibile, non conosco altri metodi».

Con che obiettivo lei è avvicinata a questo tipo di giornalismo?

«C’è la voglia di ricostruire per bene i fatti e c’è la permanenza nei luoghi e nella notizia. Non amo il giornalismo che tende a coprire eventi solo quando sono da apertura di Tg, a me piace restare a lungo e tornare anche quando cade l’attenzione e si stemperano i riflettori. Ad esempio è stato per me importantissimo tornare nei luoghi dei cristiani in Iraq seguendo la visita di Papa Francesco, luoghi che avevo percorso al seguito delle forze che liberavano Mosul dal califfato, avevo visto i cristiani tornare nei loro villaggi liberi. Mi piace tornare a distanza di tempo anche per non perdere di vista i dopoguerra che spesso sono preludio di altre guerre».

Com’è per una donna fare questo mestiere?

«Le donne spesso sono in posizione di svantaggio, un esempio eclatante è quello risalente a un anno fa in Afghanistan, dopo la caduta di Kabul nelle mani dei talebani. Mentre intervistavo un talebano delle forze speciali, vestito di ordigni e armato di fucile, mi accorsi che mi rispondeva ma non mi guardava e io gli chiesi “Perché non mi guarda in faccia mentre le parlo?” lui mi rispose dicendo “Non mi è permesso parlare alle donne”.

Adriano Sofri paragonò la mia domanda al gesto con cui Oriana Fallaci si tolse il velo davanti a Khomein. Essere donne però è spesso anche un vantaggio perché facilita l’accostamento alla sofferenza di quelle che sono le vittime più vulnerabili, a me è capitato di poter avvicinare donne più facilmente. Ero su un rimorchiatore dei ribelli libici di Misurata, la barca che caricò degli sfollati. Mi accucciai vicino alle donne e mi raccontarono l’orrore della fuga, le violenze fisiche e sessuali con una confidenza che con un uomo non avrebbero potuto raggiungere. In una guerra devi mescolarti, stare con i protagonisti, infatti parlo spesso di un giornalismo di immersione che vuole farsi riconoscere e ricordare».

E quanto è difficile trovare l’equilibrio tra il lavoro e la famiglia?

«Dipende. Per quel che mi riguarda, credo di poter affermare che sarei stata una cronista appassionata anche con dei figli. Probabilmente non è un caso che io non li abbia o forse sì. Ricordo però una collega francese che fremeva per partire verso un luogo di guerra; il marito la esortò a partire e le disse che avrebbe pensato lui ai bambini. Trovai giusto questo modo di agire».

C’è qualcosa che l’ha spaventata particolarmente e che non dimenticherà mai?

«Ce ne sono tante, sono guerre asimmetriche e io spesso sto dalla parte dei più deboli, lì il pericolo ti arriva addosso senza che tu te ne accorga. Sono guerre miste, sporche mentre percorri una città come Kobane, Mosul o Raqqa, un attimo prima senti gli uccelli cantare e un attimo dopo ti arriva la guerra addosso. Ma la paura è sana, è saggia ma mai paralizzante… poche ore dopo torni a voler vedere quella realtà».

Come vede la nuova generazione di giornalisti?

«Hanno un dominio delle tecnologie che la mia generazione non possiede. Mi lascia scettica, nel racconto televisivo, la tendenza a riassumere in un’unica persona chi scrive, chi riprende e chi monta. I bei reportage con bravi operatori video restano i miei preferiti, in guerra poi bisogna essere almeno in due se non altro almeno per guardarsi le spalle».

Sogni nel cassetto?

«Sì, un libro da scrivere. Ho l’idea di un manuale di buon giornalismo, mi piacerebbe lasciare qualcosa che rimanga. Ho anche il titolo “Il tempo delle due luci”, un tempo cinematografico in cui la luce naturale non se n’è ancora andata e le prime luci artificiali si accendono. L’operatore Miki Stojicic che ha raccontato con me dieci anni di lavoro, mi ha spiegato che un bravo operatore quel tempo lo tiene più a lungo possibile, è il tempo sospeso delle guerre, quando i destini finiscono in una dimensione ignota».

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