Livorno 1921, il mito del Pci come in un romanzo

Livorno 1921, il mito del Pci come in un romanzo
di Ilaria MARINACI
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Martedì 19 Gennaio 2021, 20:14 - Ultimo aggiornamento: 31 Gennaio, 18:57

Cento anni fa si celebrava un evento che, oggi un secolo dopo e con onesta consapevolezza si può definire uno spartiacque nella storia italiana. Al Teatro Goldoni di Livorno, durante il XVII congresso del Partito Socialista, al termine di una accesa settimana di dibattiti, il 21 gennaio si consumò la scissione che portò, contestualmente, alla nascita del Partito Comunista Italiano, con i secessionisti autoconvocatisi nel vicino e semidiroccato Teatro San Lorenzo. A ripercorrere la vicenda, con il ritmo incalzante di un romanzo storico, è la penna del giornalista leccese di Rai Radio1 Federico Mello nel libro in uscita oggi per Utet, Compagni! Il romanzo del congresso di Livorno.

Un lavoro di ricerca poderoso durato tre anni che ha dato vita a una narrazione avvincente in cui i grandi protagonisti dell'epoca sono ritratti nella loro umanità, evidenziando anche tratti caratteriali o comportamentali che, col tempo, sono andati perduti lasciando spazio a una certa mitologia. Leggendo, si ha l'impressione di essere proprio lì, a Livorno, in quelle giornate convulse e in mezzo a quegli animi esasperati, in bilico fra tensione ideale e pragmatismo politico, gomito a gomito con chi aveva combattuto fra le trincee della Prima Guerra Mondiale e chi guardava alla rivoluzione bolscevica come un orizzonte salvifico. Questo anche grazie a una scommessa di stile: attualizzare una lingua desueta. «Il congresso di Livorno è uno snodo fondamentale della nostra storia spiega Mello che condizionerà la nascita del fascismo, la sinistra italiana, lo scenario internazionale in Europa».

Qual è il contesto in cui si svolge?

«È l'epoca inferocita dalla Prima Guerra Mondiale, un evento traumatico, in cui molti contadini avevano scoperto la tecnologia e la modernità ed erano tornati a casa carichi di violenze e frustrazioni. Ma è anche l'epoca della Rivoluzione Russa che accendeva grandi speranze sebbene, già nel '21, fossero chiare alcune derive che avrebbe preso la dittatura sovietica. C'è, poi, un altro aspetto: dopo l'Ottocento, il secolo della rivoluzione industriale e della fiducia nel progresso, motori del socialismo delle origini, all'inizio del Novecento c'è una svolta ideale alla quale si abbevera, in un certo senso, anche la corrente di pensiero che darà origine al fascismo ma soprattutto la componente comunista italiana, che rinnega il pensiero positivista e sposa ciò che Gramsci chiama l'ottimismo della volontà».

C'è un fattore umano predominante. Come ha tratteggiato i protagonisti della storia?

«Inizialmente avrei voluto dargli il titolo di Romanzo a colori perché spiegava bene l'approccio. Quando pensiamo al passato, tendiamo a immaginarlo in bianco e nero o seppiato. Mi piaceva, invece, l'idea di ridare colore alla storia proprio restituendole umanità. I protagonisti sono i grandi leader della storia del socialismo italiano, messi sotto una luce nuova. Li ho paragonati ad alcuni animali per caratterizzarli ai lettori. C'è il vecchio leone, Filippo Turati, il fondatore contestato dai giovani, la tigre, Nicola Bombacci, estremista, il mulo, Giacinto Menotti Serrati, l'unitario che cercava di tenere insieme riformisti e rivoluzionari.

Ci sono, insomma, i tre tipi che, se vogliamo, sono rimasti nella sinistra italiana anche nei cent'anni successivi: il riformista, il rivoluzionario e l'unitario».

E Antonio Gramsci?

«È riproposto con la sua fisicità, le sue asprezze, la sua passione, il suo profilo pienamente rivoluzionario che, con gli anni, è stato un po' annacquato. Un dettaglio che sottolineo spesso è che era un grande fumatore: gli ridà umanità rispetto al santino che è stato costruito nel tempo».

Le divisioni della sinistra di oggi, quindi, nascono allora?

«Sono divisioni quasi antropologiche. La sinistra non nasce nel '21, ha una storia lunga, bella e pionieristica alle spalle che io, nel libro, racconto. Sebbene sia sempre vissuta nel mito dell'unità, cercando di tenere insieme gli opposti, scrivendo mi sono chiesto quanto sia realmente possibile quest'unità, se non siano, invece, due storie differenti, come in Germania, Inghilterra, Francia. Da una parte gli idealisti, poco pragmatici ma puri, dall'altra i riformisti, che cambiano la dinamica del potere, ma sono sempre a rischio cinismo. Non sono sicuro che queste due anime possano trovare una sintesi, mentre una più compiuta adesione a un punto di vista socialdemocratico avrebbe permesso anche all'Italia di avanzare più velocemente».

Come in ogni romanzo, c'è pure una storia d'amore: quella fra Turati e Anna Kuliscioff. Perché questa scelta?

«Il loro carteggio è una delle prime cose che ho letto quando ho iniziato a lavorare sul libro. Sono due giganti della storia italiana un po' dimenticati. Turati dice cose che ancora oggi ci parlano, ma raccontare la storia con Anna è anche il mio modo per restituire l'attenzione che merita a questa donna russa, laureata a 20 anni, sposata prima con Andrea Costa, il primo deputato socialista italiano, compagna poi di Turati, leader del riformismo. Lei era una delle più grandi intelligenze politiche, che oggi sarebbe stata una leader, ma ai tempi faceva solo la consigliera, non potendo votare o candidarsi. Pensiamo quanto doveva essere frustrante quel ruolo ancillare quando, invece, si capisce che spesso è lei a dare la linea a Turati».

Che spunti di riflessione vorrebbe che traessero dal romanzo i lettori immersi nell'attualità politica di questi giorni?

«Il libro fa venire fuori un tratto del carattere nazionale di noi italiani: privilegiare la retorica all'analisi razionale, l'ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione. Preferirei un Paese meno parolaio e più concreto nella gestione delle cose. Invece, a noi piace la pantomima, il tribuno. Per dire, Bombacci mi ricorda Di Battista, Serrati Zingaretti. Conoscere quella storia forse ci permette di sapere meglio chi siamo e correggere i nostri difetti».

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