Di mestiere faccio il linguista/L'inclusività e il maschile sovraesteso

Di mestiere faccio il linguista/L'inclusività e il maschile sovraesteso
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 14 Novembre 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 21 Novembre, 16:36

La coesistenza di genere maschile e femminile, strutturale nella lingua italiana, comporta soluzioni specifiche nella concordanza del plurale. In frasi in cui i nomi sono tutti maschili o tutti femminili, l’aggettivo mantiene il loro genere e si declina al plurale. «Indosso un abito e un gilet ben stirati» (perché abito e gilet sono maschili); «Porto sempre con me una cartella e una rubrica nere» (perché cartella e rubrica sono femminili). Se i nomi sono di genere diverso, l’aggettivo si declina al maschile plurale: «Ho fatto amicizia con un ragazzo e una ragazza spagnoli». Se tre bambini e due bambine giocano in cortile posso correttamente dire: «Cinque bambini giocano in cortile». La frase non cambia se nel cortile giocano quattro bambine e un bambino, cioè la scelta della forma maschile «bambini» non dipende dalla maggioranza numerica. È il cosiddetto maschile sovraesteso, normale nell’italiano. Qualcuno obietta che la scelta di preferire il maschile al plurale nel caso di coesistenza di maschile e femminile al singolare è discriminatoria, l’uso del maschile è prevaricante. Esistono soluzioni per evitare la (supposta) sopraffazione? 
Acquista sempre più piede la modalità di indicare esplicitamente il sesso delle persone a cui si fa riferimento. Ad esempio, in avvisi come questo. «Le studentesse e gli studenti che intendono sostenere l’esame di Linguistica italiana…». In particolare nelle forme allocutive questa modalità, nel parlato e nello scritto, rappresenta un segnale di attenzione per le donne. Si diffondono formule come «Care amiche e cari amici», «Care colleghe e cari colleghi», «Care socie e cari soci», ecc. Il modello ha un antecedente nella tradizione dello spettacolo, nella quale è consueto rivolgersi al pubblico presente in sala con l’allocutivo «Signore e signori». È maggioritario nella lingua della politica. Un candidato si indirizza a chi potrebbe votarlo con l’allocuzione «Care elettrici e cari elettori», senza dimenticare di rivolgersi prima alle donne e poi agli uomini, con una galanteria che appare un po’ affettata, forse non del tutto sincera. È adottato nella comunicazione della Chiesa, a partire dal suo massimo esponente: «Sorelle e fratelli, sogniamo insieme!» leggo nella trascrizione di un discorso di Papa Francesco al IV incontro dei Movimenti Popolari. «Care Sorelle, Cari Fratelli, mi rivolgo a voi stasera con grande emozione e con profonda gioia» scrive Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo, tutto maiuscolo «Care Sorelle, Cari Fratelli» (trovo i due testi in rete). Senza averlo previsto, proprio mentre scrivo quest’articolo, mi arriva un messaggio collettivo di posta elettronica, mandato da un professore ad altri professori, che chiude così: «Un saluto caro a tutte e a tutti!».
Dagli esempi si potrebbe dedurre che l’abbinamento di forme femminili e forme maschili comporta a volte un allungamento e appesantimento del testo. Per evitare questo rischio (e per essere politicamente corretti) prendono corpo tentativi di risolvere con espedienti grafici le questioni “ideologiche” ravvisate da alcuni nella sintassi italiana, che accorda al maschile le sequenze di sostantivi maschili e femminili (due o più di due): «Per la festa di domani indosserò pantaloni, maglione e scarpe nuovi» (intendo che tutti quei capi di abbigliamento sono nuovi, se usassi l’aggettivo al femminile significherebbe che solo le scarpe sono nuove, pantaloni e maglione sono già usati).
Una soluzione spesso praticata è l’asterisco che, in fine di parola, sostituisce la terminazione di nomi e aggettivi per “opacizzare” il genere grammaticale: abbiamo così forme come «Car* collegh*» e «Car* tutt*». L’asterisco si potrebbe usare anche in frasi come «Tutt* credono che il sole riscalda la terra» (invece di «Tutti»), perché quell’opinione è attribuita sia alle donne che agli uomini, e quindi non va bene utilizzare il pronome indefinito «Tutti», con desinenza maschile. L’uso grafico dell’asterisco ricorre con una certa frequenza in comunicazioni scritte che circolano all’interno di gruppi relativamente omogenei. Una circolare (da me recentemente ricevuta) comincia così: «Carissim* Colleghe e Colleghi, con l’avvicinarsi della data del nostro convegno …». 
La giornalista Michela Murgia propone di ricorrere ad un diverso espediente grafico utilizzando, in luogo dell’asterisco, una «e» rovesciata (non esiste nella tastiera del computer, per digitarla bisogna ricorrere all’utilità «Simbolo»). È un tratto che viene usato in linguistica (non a caso, prima di Murgia, una simile soluzione è stata suggerita da qualche linguista). Serve a rappresentare un suono vocalico neutro, senza accento o tono, di scarsa sonorità, presente in molte lingue e in vari dialetti italiani (con termine tecnico si definisce schwa, parola tedesca; in italiano, con adattamento, scevà). Ad esempio, in inglese la pronunzia della vocale in «bird» ‘uccello’ e (iniziale) in «about» ‘circa, intorno’; in napoletano, la pronunzia “affievolita” e “indistinta” della vocale finale di «calzone», «mare», «sole», ecc., che non è salda come nella fonetica italiana. Non sono mancati i consensi. «Michela Murgia in un articolo su L’Espresso online usa lo schwa. Magari sbaglio ma a memoria mi pare la prima volta che lo si usa in un pezzo di politica (e non in uno che parla di questioni di genere). Brava lei e bravi a L’Espresso» (così twitta Chiara Baldi, giornalista freelance @ChiaraBaldi86). 
Proviamo a concludere. L’adozione dell’asterisco o dello schwa ha una chiara finalità politica, vorrebbe esprimere la fine della discriminazione e il trionfo dell’inclusività, annullando il differente trattamento linguistico riservato ai generi. Una questione di rispetto. È giusto e opportuno, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte relative al genere, evitando ogni forma di sessismo. Ma, per raggiungere l’obiettivo, non si può forzare la lingua mettendola a servizio di un’ideologia, per quanto apprezzabile. Risulta difficile applicare posizioni ideologiche o politiche alle consuetudini della grafia, che si sono formate attraverso processi storici durati secoli. Poco praticabile, per giunta, risulterebbe la «e» rovesciata, che non si trova sulla tastiera del computer e corre il rischio di essere modificata quando si passa da un mezzo a un altro, ad esempio da un computer a un giornale. Pur se, come mi fa osservare Fabrizia Sernia, giornalista scientifica, «nella corrispondenza di alcune grandi aziende americane lo schwa ha già attecchito: ai dipendenti si raccomanda di rivolgersi verso l’interlocutore in modo neutro». Sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dalla grammatica e dalle strutture della lingua. L’asterisco o lo schwa finali nella scrittura non rappresentano una soluzione al problema della mancata inclusività, che è un fatto sociale. 
E allora? Come sempre nella lingua, non valgono divieti o imposizioni.

Decideranno, senza accettazioni indiscriminate e senza chiusure aprioristiche, coloro che scrivono, di qualsiasi livello sociale e culturale. Padroni della lingua siamo tutti noi. La decisione sui nuovi segni grafici è affidata al tempo e alle scelte collettive. Con consapevolezza, per quanto possibile: i processi storici non ammettono forzature o improvvisazioni.

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