«Come un respiro, racconto la mia Istanbul scomparsa»: a tu per tu con Ferzan Ozpetek

«Come un respiro, racconto la mia Istanbul scomparsa»: a tu per tu con Ferzan Ozpetek
di Claudia PRESICCE
6 Minuti di Lettura
Domenica 17 Maggio 2020, 09:41
“Cara Adele, ti scrivo dalla terrazza di un caffè che si affaccia sul porto, a Kas. Mi fermerò ancora una settimana. È passato tanto tempo dalla mia ultima lettera...”. L’incantesimo avviene quando parole nude sulla pagina di un libro riescono, davanti al lettore, a fare danzare unmondo nuovo. E, se toccano coreografie che ogni anima incasella nel suo repertorio emotivo, accendono di nuova energia le luci di quella ribalta. Nitidamente questo accade in “Come un respiro”, l’ultimo denso romanzo di Ferzan Ozpetek (regista e scrittore turco-leccese) capace di portarti via, dentro il suo mondo danzante fatto di affetti estremi che tutti custodiamo. Dagli anni Sessanta ad oggi, tra queste pagine corre la storia di un romanzo misterioso tessuto sul giallo di due sorelle lontane, tra Roma e Istanbul, divise da una vicenda oscura. Un epistolario, una bella casa romana al Testaccio e uno strano anello che diventa un porta-sigaretta da dito sono solo alcuni frammenti che abitano l’efficace corollario di una storia intrigante, ben ritmata tra ieri ed oggi.

Ferzan, intanto come sta, dove trascorre il tempo del suo ‘ritiro’?
«Io sono a casa a Roma, sto bene, ma lì a Lecce come è la situazione?».

Sembra tranquilla.
«Sono preoccupato per chi viene giù che non faccia arrivare il contagio, ci vuole molto senso civile ora…».

Ha ragione, molto. Allora, mi racconta dove nasce la trama del suo libro?
«Da anni pensavo alla storia di mia nonna che da ragazza ha litigato con sua sorella per un motivo misterioso, e non si sono mai più incontrate fino alla loro morte. La sorella fece un bel matrimonio, visse a Venezia, aveva cavalli da corsa e una vita brillante. Poi ad una cena 38 anni fa ho conosciuto un giovane che era suo nipote, e mi ha ricordato di queste sorelle divise. C’è qualcosa di simile già accennata nei miei primissimi film, e c’è pure l’incontro alla stazione tra Valeria Golino che va verso Istanbul con una signora misteriosa che qui ritorna…».

Proviamo a non dare dettagli di una trama che trascina dentro il lettore; se non sa niente è meglio.
«Sì, me l’hanno detto anche altri. La prima bozza del libro, non ancora corretta dai refusi, l’ho mandata alla mia amica Mina alle due del pomeriggio per mail. Mi ha chiamato la sera che lo aveva già letto, dicendomi che non dovevo pubblicare niente perché era un film perfetto, ma la trama non doveva scoprirsi prima…».

Scusi, ma quando dice “la mia amica Mina”… è la nostra Mina?
«Sì, è lei, la grande Mina, è la mia prima lettrice e tante altre cose per me. Dopo di lei lo ha letto un amico che pure mi ha detto che si è sentito trascinare nel libro. Però, pensavo, sempre amici miei sono. Giorni fa poi un signore che mi sta aiutando a traslocare per dei lavori in casa mi ha chiesto: “ma quella signora alla stazione del romanzo…”, credevo si riferisse ad un corto sui treni. Invece aveva già preso il libro, uscito il giorno prima, e lo aveva letto tutto d’un fiato perché non riusciva a staccarsi. Allora sì, ho cominciato a crederci davvero…».

Veniamo ad Istanbul: è una splendida protagonista, sensuale e regale con la sua storia più bella che fa dimenticare un presente meno luminoso…
«Ho raccontato qui la città che mi manca e che non ci sarà mai più. Quando l’ho lasciata nel ’76 per venire in Italia avevo vissuto anni bellissimi, soprattutto tra ’73 e ’74, era un’altra Istanbul. Una città di incontri, di passioni, di hamam, e la storia di Orhan, di un incontro mancato per un ‘ingresso sbagliato’, l’ho vissuta io davvero. È stata molto forte, per dieci anni quando tornavo in città guardavo tra la gente per cercare quel ragazzo trovato e perduto per un caso. Non c’è più quella Istanbul, mi manca. Ho messo giorni fa su Instagram la più grande Pr del mondo, una mia amica turca che mi ha insegnato tante cose sulla comunicazione: ho avuto nostalgia della sua casa, di bere il tè con i biscotti fatti dalla sua signora. Tanti quartieri si sono completamente trasformati e molto di quella Istanbul non esiste più».

Al centro due donne ricostruiscono se stesse e un’epoca, quello scorcio di ‘900 tra gli anni Sessanta e Settanta, di cui lei ha fotografato la profondità dei rapporti umani: lì si sente la nostalgia.
«Assolutamente, sono sensazioni vissute. Ho passato anch’io un periodo della mia vita in quegli anni in cui scrivevo tante lettere a un mezzo amore che viveva a Parigi, che ora non sento da anni. Scrivevo, scrivevo, ma poi non le spedivo mai. Una parte le ho usate nel film “Il bagno turco”, e l’altra parte è entrata in questo libro. Penso che in fondo quindi siano state consumate abbastanza... Ma sono lettere molto sincere perché c’era dentro il mio sfogo e tutta la mia nostalgia di quel tempo».

Anche la sola idea della lettera, che non è la mail, mette nostalgia. Quel gusto unico di ritrovarsi quel pezzo di carta tra le mani che arriva da lontano…
«No certo, una mail non ha niente a che vedere con il fascino delle lettere: ne conservo tante, e scrivere a mano è una cosa bellissima. Si è persa purtroppo questa abitudine: solo Armani mi manda al compleanno un suo biglietto scritto a mano, oppure Betul, lamia amica turca di Instagram; quella generazione scriveva molto».

Anche le cartoline...
«Un’emozione, ne ho tantissime, ora che rinnovo la casa troverò anche la mia scatola piena di cartoline! Comunque in questi ultimi 20 anni viaggiando con Simone abbiamo sempre mandato cartoline ad amici, ai nostri nipoti, a mia madre in Turchia, mi piace moltissimo. Fa grande effetto ricevere una cartolina dal mondo fino alla tua posta…».

Vero, sono forse messaggi più pensati rispetto a quelli rapidi di una chat. Tornando al libro, abbiamo detto che ci sono le lettere, Istanbul, le due sorelle, ma al centro, come dice lei, c’è un thriller.
«È una specie di thriller sì, perché vuoi sapere come finisce. E non è un caso. Ogni cosa che faccio, ogni immagine che cerco, ogni cosa che scrivo, la faccio in base a quello che io vorrei vedere, ascoltare o leggere. Ragiono sempre da spettatore, da lettore. E a me piacerebbe molto leggere un romanzo così, da scoprire fino in fondo».

Cambiando argomento, una nuova dimostrazione che lei ama la Puglia è Diodato, il cantautore tarantino. Dopo la canzone per il suo film “La dea fortuna” è ‘volato’: ieri sera era da solo all’Arena di Verona per l’Europe Shine Light trasmesso in una cinquantina di nazioni.
«Diodato è arrivato in modo strano, dopo che con Mina abbiamo scelto dal suo album con Ivano Fossati “Luna diamante”. Non volevamo metterla però di nuovo per i titoli di coda, cercavo altro. Una sera un ragazzo della produzione ha insistito per farmi sentire un brano, io non volevo: poi non ho neanche finito di ascoltare “Una vita meravigliosa”, a metà ho fatto chiamare immediatamente Diodato per bloccarla. Mi ha rapito subito, è una canzone bellissima, lui è un artista sensibile, di grande umanità e semplicità, bravissimo. Edoardo Leo mi disse che Diodato aveva proprio bisogno di un’occasione giusta come quella che gli avevo dato per emergere: ‘merita molto, vedrai...’ mi disse. Infatti è successo proprio così. Quando poi sono stato dalla mia ‘famiglia’ leccese, un giorno ho deciso di andare a Taranto, dove non ci va mai nessuno, chissà perché. Quella città mi ha conquistato e anche i tarantini. Con Diodato, ospiti dei proprietari di un cinema, abbiamo passato una serata bellissima: lui e Taranto sono stati una bella sorpresa. Mi dispiace non averli conosciuti prima, ma recupereremo».
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