La prima star social quando Facebook e Twitter erano ancora di là da venire. Il primo influencer quando gli influencer neanche erano nati. Il primo testimone globale prima che altri, presunti tali si riducessero a meri testimonial. Di John Lennon si conosce tutto - musica, origini, amori, prima i Beatles e poi Yoko Ono - e aggiungere di più alla sua biografia sarebbe un ripetersi inutilmente: tempo sprecato, meglio usarlo per riascoltarsi i suoi capolavori immortali per semplicità e forza evocativa.
Si è detto di tutto di quei quattro colpi di pistola sparatigli alle spalle - 40 anni fa davanti alla casa di New York, il più triste 8 dicembre degli ultimi decenni - dal giovane Mark Chapman che qualche ora prima si era fatto autografare il suo nuovo disco. Si è detto che, con Lennon, sono morti l’utopia, il sogno, la giovinezza. E che con lui si è perduta l’innocenza: quella della sua generazione sicuramente, forse anche di quella successiva. Tutto vero, eppure ormai passato. Oggi conta quello che Lennon può rappresentare per il futuro. Non tanto per quello che lui potrebbe ancora dire se fosse in vita - si sa, a 80 anni è difficile conciliare creatività e “spirito del tempo” - quanto per quello che può insegnarci ciò che ha cantato e come lo ha fatto. Senza chiamarla “lezione”, però. Non gli piacerebbe.
Certo, chi ha meno di 20 anni - oggi che ne sono passati già il doppio da quel 1980 - forse neanche ne ha sentito parlare. Qualcuno magari lo ha visto stampato su una t-shirt, ma senza esser certo che non si tratti di un altro rivoluzionario sudamericano. Già troppo lontano nel tempo, insomma. Ma è quasi normale, tanto più in questi tempi così accelerati: in fondo accadeva lo stesso a Michelangelo con i manieristi e a Mozart con i pianisti del Romanticismo. A 20 anni l’adesione alla contemporaneità è quasi un obbligo e va benissimo così. Poi, l’orizzonte si allarga. A sfavore di Lennon - fatta sempre salva la misteriosa magia delle sue melodie - potrebbe giocare il fatto che amore e libertà non vanno più molto di moda. Figurarsi la pace nonostante le battaglie in prima fila che pure gli erano costate ostracismi presidenziali e pedinamenti della Cia. Non è questo che importa e se oggi le tensioni ideali portano altrove non riconoscerlo sarebbe solo stupida nostalgia.
Il punto non è il contenuto, ma il linguaggio e il destinatario: Lennon ha indicato una strada perché l’immaginario delle sue canzoni e del suo attivismo (post-Beatles) diventavano collettivi, globali, planetari. Universali, senza che la parola suoni retorica, come forse non lo sono mai stati per nessun altro musicista o icona del costume negli ultimi 100 anni.
Questo forse ci manca di Lennon, questo servirebbe. Ancora di più ora che il mondo sembra andare verso il rinchiudersi in se stessi: necessario (e condivisibile) per salvaguardarsi dal virus che ci ha cambiato la vita; pericoloso se ciò dovesse trasformarsi in una nuova attitudine ora che già - lo dicono le ultime ricerche sociologiche - siamo diventati più ansiosi e più cattivi. Non è una strada facile guardare oltre se stessi. Anzi, è sicuramente la più ardua in una fase come questa in cui la priorità sembra salvarsi la (propria) pelle: comportamento legittimo, fisiologico e comprensibile quando la pandemia incombe e la paura (compresa quella di perdere le singole porzioni di benessere) si fa largo. Ma non chiamatelo mondo, però: il senso dello stare insieme - piccola o grande che sia la comunità che si prende come riferimento - è un’altra cosa. “Credeva nella sincerità e che il potere delle persone potesse cambiare il mondo. Che la verità è ciò che creiamo e che è tutto nelle nostre mani”, disse di Lennon la donna che lo conosceva bene. È vero, erano solo canzonette. Ma proprio per questo c’è da fidarsi.