"Salento. Terre e mari a Sud Est", il libro di Luca Bergamin

"Salento. Terre e mari a Sud Est", il libro di Luca Bergamin
di Claudia PRESICCE
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 21 Settembre 2022, 05:00

Li ha stanati tutti, e ne ha fatto un libro. Quelli alla luce del sole e quelli nascosti nei meandri meno conosciuti (ignoti pure ad indigeni scafati) della punta di questa lunga regione protesa a Sud Est d’Europa. Luca Bergamin, scrittore e giornalista di quotidiani e riviste nazionali, di origini mantovane, è andato a scovare segreti e malie della nostra bellezza, restituendone il respiro lento con la sua penna morbida. È partito da incanti di Lecce: dal monastero attiguo al cimitero tangibile desiderio di Tancredi d’Altavilla, ai giardini nascosti da alte mura a San Pio a Villa Reale disegnati dal fiorentino Pietro Porcinai (prima che diventasse il più grande architetto paesaggista italiano), arrivando fino ai tanti palazzi con gatti sornioni argentati e rossicci che sono tra i veri padroni della città, oltre alla pietra. C’è la nostra pietra militante alleata dell’arte, come quella dell’Obelisco resistente alle tinture che avrebbero voluto i Borboni per fingerla di marmo. Ha snidato anche opere d’arte dei palazzi del centro storico ormai profumati d’Europa, e poi fuori, fino alle “sgarrupate marine leccesi” e più giù tra due coste inseguite nel loro lirismo più denso e pastoso, più antico e suburbano, più meridionale. Con occhi da cronista e cuore da poeta, li ha cercati i nostri segreti e ne ha fatto narrazione in un libro unico nel suo genere, perché fotografa e racconta (anche agli stessi salentini) che cosa è il Salento oggi, la sua poesia al di là degli stereotipi di narrazioni ovattate, ma anche dei pregiudizi di chi lo abita.

In “Salento. Terre e mari a Sud Est” è infatti tutto visto dagli occhi di un settentrionale narratore di terre del mondo che, tra tanti Paesi amati, ha scelto di venire ad abitare qui. Affiorano, tra pagine farcite di potenti incanti legati a luoghi che ormai sono i suoi, tra storie vere e sognate con la gioia dell’innamoramento, i mille contagiosi “perché” di questo incastro magico con Lecce e il Salento.

Come è iniziato tutto questo Bergamin? Che cosa c’è a monte?

«Più che a monte, direi a ‘mare’, mi sembra più giusto… no?».

Vero, dica...

«Il legame con un luogo nasce al di là delle origini, e chi sceglie oggi di abitare il Salento è forse più portato ad elogiarne la bellezza rispetto a chi ci abita e coglie soprattutto le criticità. Chi viene da fuori accetta i difetti con una sensibilità diversa, perché è una terra accogliente. Avevo amicizie qui e venendo da giornalista di viaggi, arte, cultura e luoghi, anche esteri in passato, ho trovato in Salento tante declinazioni della bellezza: dalla natura molto simile alla Bassa California del Messico ai mari che dettano i ritmi della vita, alle architetture contadine rivalutate e anche a quelle antiche non oggetto di restyling che esprimono una personalità prorompente, fino agli artigiani della pietra e del legno, e ai tanti cucinieri che non ambiscono alle stelle Michelin. Prima, anzi, metterei le persone che sono quelle che fanno i luoghi. Sono tre anni che vivo nel centro storico di Lecce, ma ci sono arrivato molto tempo prima e conosco il territorio, nel bene e nel male».

Il centro storico dovrebbe essere il luogo più genuino, ma non sempre lo è, come succede in tante città turistiche italiane...

«Molte cose stanno cambiando sì, i miei vicini di casa sono americani, inglesi e belgi che hanno investito qui.

Alcuni nel centro aprono parte dei loro palazzi ai turisti stranieri, non stanno inseguendo solo la bellezza, come me... Io ho creato una terrazza piena di alberi, agave, bouganville, persino araucarie, cercando di portare la natura sui tetti. Davanti vedo il ficus storico dell’ex Conservatorio di Sant’Anna e dall’altra parte chi sale sul campanile del Duomo. Mi ha travolto questa luce che a Milano manca: la luce autunnale, invernale e primaverile ti entra dentro, ti lega e poi ne senti la nostalgia. Mi ha rapito la città, nei suoi angoli intimi, ho viaggiato per anni partendo dalle marine oniriche che ricordano le architetture di De Chirico, tra masserie abbandonate come strutture fantasma…».

Un viaggio a tappe che racconta nel libro.

«Sono partito da Lecce, poi Rauccio, andando quindi nei borghi, cercando di raccontare luoghi e anche persone, con la poesia incredibile che caratterizza queste terre. Penso ad Acaya concepita come una città perfetta, tipo Palmanova in Friuli, le panetterie nascoste a Frigole poi giù fino a San Foca di cui ho raccontato anche della Tap, da reporter spiegandone la storia. Tra tanti incontri, c’è una donna che per me ‘sussurra’ ai cavalli a Frassanito, e anche storie di Palmariggi di felliniana memoria…».

Sveliamo?

«Giulietta Masina, molto devota alla Madonna, amava andare al Santuario di Palmariggi e si racconta che Fellini, che la accompagnava ogni volta, si annoiava quando lei entrava a pregare nella grotta. Per resistere al tedio di queste soste, nei pomeriggi d’estate pare che lui si dedicasse ad ascoltare le cicale o che fermasse persone per strada per dialogare».

Scrive che la nostra costa “è già Grecia e viceversa”: vuol dire?

«Dalla strada per Otranto si vedono le montagne dell’Albania e poi scompaiono dandoti una vertigine inspiegabile. Siamo vicinissimi, se giriamo la cartina in un altro modo la Grecia è davvero ad un passo da noi. Tanti turisti frettolosi vengono a fare il bagno alle Maldive e vanno via, non vedono nient’altro, ma mille segreti della geografia salentina vanno raccontati. I Messapi arrivarono da Creta, pare, e quell’est fa parte delle persone, dei visi, dei modi, dell’indolenza felice di lasciare andare le cose. Dall’altra parte Fanò e le altre sono isole molto salentine, un nostro prolungamento naturale, come andare sul Gargano da Bari. I colori di Castro sono quelli di Corfù e la gente si assomiglia».

In fondo siamo tutto un popolo mediterraneo.

«Sì, infatti un tempo non c’erano confini nei fortunosi spostamenti in mare».

E non ci saranno in futuro se l’umanità sopravvivrà.

«Non ci sono già, fa comodo alla politica non vederlo».

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