I segreti della forma nelle opere di Calò

I segreti della forma nelle opere di Calò
di Brizia MINERVA
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Sabato 6 Maggio 2017, 20:58
La linea astratta della scultura che percorre gli anni 60 e 70 ha nel Salento un interprete sorprendente per complessità e rigore: Aldo Calò. Artista dall’intensa visione creativa improntata ad una sperimentazione che presto si evolve dal fronte figurativo a quello astratto. Ma anche uno scultore di respiro internazionale, con importanti contributi della critica militante e prestigiosi riconoscimenti, tali da annoverarlo tra i protagonisti della scultura contemporanea in Italia, che pure è tuttora un nome poco conosciuto, rimasto al di fuori del sistema dell’arte, dai meccanismi che ne definiscono il successo. 

Nato a San Cesario di Lecce nel 1910, stesso anno e stesso luogo di Carlo Barbieri, studia e si forma presso la Regia Scuola leccese d’Arte applicata all’Industria, in un momento di grande vivacità artistica della città che ha proprio in questa scuola uno dei centri propulsori di nuova energia creativa. È a partire dagli anni Trenta infatti che si forma a Lecce un gruppo di artisti e letterati di varia estrazione, che contribuisce a rivitalizzare l’ambiente culturale guardando ad esperienze europee. Sono soliti darsi appuntamento nei caffè della città Alvino e Buda, nelle case, negli studi e nelle botteghe artigiane come quella di Antonio D’Andrea, un intellettuale artigiano del ferro. Tra questi, insieme a Calò, vi sono Re, Suppressa, Ciardo e le grandi figure di Pagano, Bodini, Macrì, Comi, Bonea. Incontri da cui nascono discussioni, aggiornamenti sull’arte, suggestioni, scambi di idee, letture e liberi pensieri che fanno volare questi artisti al di sopra della dimensione localistica. La città sembra voler cambiare pelle. Nel 1935, dopo il servizio militare anche Aldo Calò è a Roma, per inseguire il suo sogno di realizzazione. Si dedica per vivere all’insegnamento e alla progettazione di arredi, perfezionandosi, nel frattempo, presso il Magistero d’Arte di Firenze. Nel 1945 realizza la sua prima personale al Circolo Cittadino e nel ’48 è presente alla Biennale di Venezia dove conosce l’opera dello scultore inglese Henry Moore. È una rivelazione. Capisce immediatamente quale strada seguire per affrancarsi dalle premesse figurative legate ai riferimenti “classici” di Martini e Marini dalle quali era partito. A quell’incontro segue un soggiorno nello studio dello stesso Moore. Una borsa di studio a Parigi gli consente di trovare altre sintonie e affinità con i grandi innovatori europei della scultura del Novecento: oltre alle imponenti forme astratte di Moore agiscono sul carattere surreale della sua scultura le ancestrali configurazioni del rumeno Costantin Brancusi, i principi mistici e biomorfici di Hans Harp, le scomposizioni della figura dello scultore russo Ossip Zadkine che nel 1951 gli presenta una personale a Parigi. 

In questa fase della sua carriera, Calò è guidato da una logica interna, la ricerca di una sintesi armonizzata con la storia, il desiderio di conciliare modernità e tradizione. Un travaglio che ancora non riesce a risolvere e superare e si palesa attraverso la definizione che nel 1958 ne dà De Micheli in Scultura del dopoguerra in Italia, classificandolo come artista tra i “figurativi della forma”. In tal senso l’opera più emblematica di questo momento è Biforma del 1953 in cui il diretto riferimento è la ricerca sul rapporto interno-esterno dei volumi indagato da Moore e che Calò sviluppa proprio durante il suo soggiorno presso lo studio dello scultore inglese a Perry Green. 
In un testo del 1958 per una personale a Volterra lo stesso calò scriveva: “I vuoti, in scultura, non devono aver soltanto funzione di snellimento o di disegno dei contorni dei pieni. È una visione che mi ha sempre accompagnato. I vuoti, anche, debbono per se stessi diventare forma, partecipare all’architettura della statua e diventare mezzi per la soluzione del problema di raggiungere una sintesi tra spazio esterno e spazio interno. Da queste esperienze sono nate le mie Biforme”. 

L’evoluzione dialettica di questo rapporto tra vuoto e pieno, tra astrazione e forma, giunge ad una purezza di espressione plastica rappresentata dalle opere degli anni Sessanta.
Nel 1962 è alla Biennale di Venezia dove ottiene il Premio della scultura. L’artista spinge il suo linguaggio verso effetti informali: la serie di “Piastre”, in bronzo (1962) nei riquadri squarciati, rivelano forza gestuale ma anche misura e controllo calibrato, attuazione di un’idea attraverso un’assoluta accortezza tecnica. 
Rispetto a queste sculture così si esprime nel catalogo della Biennale Giulio Carlo Argan: “Attraverso quegli strappi, quelle lacerazioni prodotte da una sana, naturale violenza, lo spazio compreso e imprigionato nella lastra viene liberato, restituito alla natura…. E questa lunga meditazione sulla “educazione” umana della natura, sulla relazione necessaria e reciproca di civiltà e natura, costituisce l’aspetto umanistico della scultura così esplicitamente, civilmente moderna di Aldo Calò”. 

La possibilità di portare lo squarcio sul piano del monumento fa diventare il quadrato di ferro lacerato, simbolo della Liberazione, ingrandito nel monumento della Resistenza a Cuneo, dove il suo bozzetto vince il concorso nel 1963. Questo momento culminante della sua attività prosegue con un rinnovato interesse per la geometria sempre nell’ambito di una sorta di costruttivismo organico sviluppatosi in relazione alla ricerca gestaltica e l’industrial design. La sensibilità per materie industriali come il plexiglass e le strutture modulari sono da connettere alla sua intensa attività didattica presso l’Istituto d’Arte di Roma e, dal ’65, alla direzione dell’Istituto superiore di disegno Industriale di Roma che lo colloca in una pionieristica operatività legata al progetto e alla didattica. Ancora nel pieno della sua attività creativa, Calò muore nella capitale il 15 gennaio del 1983.
Sue opere si conservano in diversi musei, tra cui la Galleria d’arte moderna di Roma, i Musei vaticani, il Musma di Matera, il Museo “Castromediano” e il Museo Civico di San Cesario a cui l’artista ha donato un cospicuo nucleo di opere e che nel 1970 gli ha dedicato una mostra antologica curata da Lucio Galante.

Recentemente sempre a San Cesario presso la ex distilleria De Giorgi è stata realizzata una mostra, curata da Lorenzo Madaro, in cui opere di Michele Guido dialogano con sculture di Calò degli anni Settanta. 
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