Lecce rende omaggio a De Candia
Artista eretico fuori dagli schemi

Lecce rende omaggio a De Candia Artista eretico fuori dagli schemi
di Claudia PRESICCE
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Martedì 11 Luglio 2017, 10:03 - Ultimo aggiornamento: 17 Luglio, 17:42
Edoardo, occhi accesi dietro ai capelli abbandonati: lui non guarda, ma fissa il mare, nonostante un velo pesi sulle sue palpebre. È un velo di alcol, di solitudine, di un’arte che brucia dentro troppo forte perché gli altri capiscano. Gli altri? La città è lontana, sempre, e quando è vicina guarda a questo normanno, che si aggira spesso ubriaco e poco vestito, senza amore. È una piccola Lecce, città provinciale e troppo borghese per gli artisti che qui vengono descritti come figure stravaganti, non omologate con la gente perbene. È la stessa bella Lecce che non ha saputo capire anche un amico d’infanzia di Edoardo De Candia, tal Bene Carmelo di Campi Salentina, nonostante il mondo da sempre ce lo abbia invidiato. Dopo averlo inserito tra i matti del villaggio, tanti anni dopo la sua morte quella stessa Lecce (che nel tempo ha imparato a coltivare un amore silenzioso per quello spirito perduto) è corsa ai ripari in maniera vistosa. Edoardo De Candia, riabilitato, è invitato ad entrare nella chiesa dedicata all’arte. La mostra a San Francesco della Scarpa “Amo, Odio, Oro”, promossa dalla Provincia di Lecce e sostenuta dalla Regione Puglia, è stata inaugurata ieri sera: cento e più opere di collezioni private, i suoi nudi e i suoi colori, i suoi sgarbi e la sua gioia, la sua sacra profanità nel cuore della “sua” città.
«De Candia è un artista pop, non tanto nel linguaggio quanto per la diffusione del suo lavoro nella città - spiega uno dei due curatori, Lorenzo Madaro, giornalista e critico d’arte che ha lavorato alla mostra per oltre un anno -. Dagli studi dei professionisti ai bar di periferia: il suo segno è distinguibile e appartiene alla città intera. La mostra - prosegue - è finalizzata proprio a indagare il suo lavoro, contestualizzandolo all’interno dell’arte contemporanea del secondo ‘900, mettendo da parte il semplice racconto del “personaggio” Edoardo, a cui è sempre stata data la maggiore attenzione». Madaro chiude citando un intellettuale storicamente vicino a De Candia, Vittorio Pagano che nel 1964, scrivendo la presentazione di una sua mostra, lo definì meravigliosamente “un’eresia che non aggredisce”.
D’altronde la mostra su Leandro non è la prima operazione di “recupero” della memoria recente di questi ultimi tempi. «L’evento nasce in continuità con la retrospettiva di Ezechiele Leandro - spiega Brizia Minerva, critica d’arte e co-curatrice della mostra -, e che pure ha visto un parterre istituzionale interessante. In entrambi i casi abbiamo seguito le tracce di artisti estremi e che si sono sempre mossi al di fuori dell’ufficialità dell’arte e degli schemi». «Sia Edoardo che Leandro sono stati artisti “cosmici” - prosegue - il loro lavoro li ha portati a verità profonde e universali in una totale identificazione tra arte e vita».
Quanto a De Candia, poi, quello della mostra è un lavoro di ricostruzione anche del percorso artistico: «Il nostro obiettivo - prosegue Brizia Minerva - era quello di ricostruire l’arte di De Candia non solo nel suo momento artistico più felice, ma raccontando i suoi “attraversamenti” dei linguaggi e della vita, in cui è stato una sorta di performer ante litteram. L’allestimento cerca di spiegare anche il suo rapporto performativo con la città che lo ha reso del tutto contemporaneo, fuori dal bigottismo della provincia e pure in grado di arrivare a tutti».
Pochi sanno infatti che i suoi tantissimi disegni colorati, le infinite tempere minimal svendute per un bicchiere di vino che oggi riempiono le case leccesi, sono una minima porzione di quello che un artista di razza come lui avrebbe potuto fare. “Avrebbe”, perché troppo tardi hanno capito (o finto di aver capito) chi era Edoardo, dopo averlo scansato, insultato, deriso per anni.
La storia di De Candia è quella di un ragazzino leccese degli anni Trenta un po’ indolente e mandato presto a bottega dal papà per imparare a fare la cartapesta. Con l’amico Antonio Massari venne coinvolto da Ugo Tapparini e Tonino Caputo in uno “scellerato” gruppo di sognatori che volevano creare cartoni animati in un’antica Lecce degli anni Quaranta. Spesso con loro si vedeva anche il futuro “ragazzo rondine”, Ercole Pignatelli, il primo a lasciare Lecce quando capì subito essere troppo piccola, e poi Carmelo Bene che li ospitava tutti in terrazza per declamare poesie verso il cielo. Avevano tutti quindici anni. Ma fu l’incontro con lo zio di Tapparini, Vittorio Pagano che aprì le porte della conoscenza ad Edoardo, segnò il suo cielo infinito. Cominciò a divorare i libri della biblioteca Pagano, uno dietro l’altro, e alcuni dissero che senza i giusti rudimenti molti di quei libri di poesia, di filosofia, romanzi americani ancora poco in circolazione potevano far male. Il ragazzo, che veniva su alto e bellissimo, cominciò a volare.
Presto Edoardo, sognatore visionario, mostrò che non ci stava a seguire regole borghesi, amava andare al mare, stare ore al sole, in silenzio: amava meno dipingere, disegnare, costruirsi un suo percorso, il successo non era un suo obiettivo. Perché farlo poi? Al di là di Pagano che gli faceva vendere qualche quadro e l’interesse di pochi altri, gli amici via via erano andati fuori a studiare, e lo rimproveravano perché dipingeva troppo poco. Pignatelli provò pure a tenere Edoardo nella sua stanzetta a Milano per farlo lavorare, ma con scarsi risultati.
Erano gli unici a “sentire” davvero l’odore del talento di Edoardo, per lo più inespresso; gli altri vedevano indolenza, silenzi di ore, il suo sguardo perso. Una città diversa forse lo avrebbe incoraggiato, sostenuto, aiutato, valorizzato in vita. Ma qui, in questi stessi luoghi in cui oggi si fa bella figura a nominarlo, a volte anche disconoscendo proprio la sua storia più autentica (ormai roba dell’altro secolo), tranne che per pochissimi veri amici, Edoardo è stato lasciato solo con il suo bicchiere, la sua tristezza, la sua incredibile voglia di amore che riecheggia nell’esasperazione del sesso centrale nei suoi disegni, in ogni schizzo. Quel che resta di Edoardo oggi sono i tanti riconoscibili disegni su carta che in pochi tratti raccontano amanti, voluttuosità, dissacrazione, un po’ cubisti fuori tempo, un po’ caratteristici dell’unico vero figlio dei fiori che l’asfittica e conservatrice Lecce abbia mai avuto.
«Se mio padre Michele Massari non ci avesse fatto trasferire nella casa di via di Vaste 9, lasciando la villa di campagna, Edoardo non sarebbe esistito – spiega l’amico pittore Antonio Massari – la sua famiglia lo voleva carabiniere, operaio. È stato un pittore vero, però ha dipinto poco, tranne che per un certo periodo e poi niente più. Fu lui a farci conoscere Carmelo Bene: ci portò da lui dicendo “andiamo a sentire il mio amico che vuole far l’attore”».
 
Gli amici di fronte al suo nome soffrono ancora dentro, per tutti la sua storia doveva essere un’altra. «L’Edoardo che mi piacerebbe si ricordasse è quello degli smalti bellissimi di cui restano pochissimi esemplari sfuggiti ad un massacro – spiega Tonino Caputo, l’amico artista leccese che vive a Roma, e che ha celebrato i ponti newyorchesi – fece da giovane delle tele meravigliose, materiche e molto futuriste, imponenti, come sarebbe dovuta essere la sua arte da quel momento in poi. Purtroppo, convinto dal suo amico Saverio Dodaro, in preda ad un impeto di furore, ne fece un grande falò nel piazzale delle Poste a metà degli anni Cinquanta. Fu una terribile perdita, enorme, che lo consegnò ad un altro destino. Non meritava di essere ricordato per gli acquarelli, i bozzetti e i disegni scarabocchiati che oggi sembrano l’unica sua produzione».
«Era un grande artista – spiega Vittorio Tapparini, artista anche lui, figlio di Ugo e amico di Edoardo – e mio padre diceva sempre che avrebbe potuto fare grandi cose se avesse “dipinto davvero”. Del successo di una mostra che fece a Ferrara in cui vendette tutto, forse l’unica fuori dalla sua terra, rideva fragorosamente dicendo: se è questo il successo me ne fotto. Avrebbe meritato maggiore rispetto a Lecce: in una città in grado di capirlo avrebbe potuto dare sfogo a quel talento che è rimasto in gran parte inespresso, e questo fa rabbia. Lo ricordo per ore seduto sul dondolo accanto a mio padre che dipingeva: in silenzio la sua anima vagava chissà dove. Io gli ho voluto molto bene».
 
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