Carofiglio: «La politica non è il veleno in rete»

Carofiglio: «La politica non è il veleno in rete»
di Claudia PRESICCE
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Lunedì 14 Maggio 2018, 21:59
La capacità di impegnarsi per cercare di migliorarci e migliorare le cose, passa dalla necessità di scendere nel fango e provare a reagire alla tempesta, “sporcarsi” le mani tutti insieme come fanno i soccorritori durante un’alluvione. Quando a spiegare che si può cambiare il mondo è uno scrittore italiano tradotto in ventotto lingue, ex magistrato ed ex senatore della Repubblica, sembra di risentire l’odore di stagioni in cui gli intellettuali non avevano paura di esporsi e farsi portatori di idee cardine della costruzione democratica della società.

“Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità” (Edizioni Gruppo Abele; 11 euro) è l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio in cui, con la forma del dialogo con Jacopo Rosatelli, si toccano temi fondanti del vivere civile e dell’etica politica in 112 pagine. Questo volumetto coraggioso, latore di idee su indifferenza e impegno, verità, manipolazioni, comunicazione pulita e disegni di futuro, nonostante la sua forma inconsueta (che ricorda quella scelta dai filosofi antichi) e un editore piccolissimo dietro, ha scalato le classifiche dimostrandosi quindi “necessario”.

«Sono quattro conversazioni per attirare l’attenzione su questioni secondo noi importanti, evitando toni pedagogici, ma con la voglia di stimolare riflessioni – spiega Carofiglio  – essere da un mese e mezzo ai primi posti delle classifiche con un libro sulla politica di un editore “di nicchia” è la dimostrazione che si può vincere una scommessa sulla bibliodiversità, e più in generale che non esistono destini già segnati, né in negativo né in positivo. C’è quindi dietro questa storia anche una metafora che mi piace…».

Intanto dimostra che la politica, che è al centro del libro, interessa molto più di quanto si pensi. Lei dice che “la politica è una cosa seria, ma chi la fa non deve prendersi troppo sul serio”. Significa anche non farne un fatto personale, come oggi abitualmente succede?

«Certamente, le cose serie andrebbero fatte da persone che non si prendono sul serio, che non significa che fanno i simpatici. È una questione di metodo rispetto all’esistenza: l’espressione amena “non prendersi sul serio” significa uscire dal proprio punto di vista egoriferito, saper guardare le cose dall’esterno, ridurre l’impatto del proprio ego sull’interpretazione del mondo e quindi sulle decisioni che prendiamo nel rapporto con il mondo. Significa essere capaci di una comprensione più lucida e quindi di un’azione più efficace e più etica».

Riguardo all’etica, tra le tante cose nel libro torna il problema del rapporto tra verità e parole, sul dovere morale di usare bene la lingua. È un tema a lei caro di cui ha già scritto...

«È infatti il terzo libro di una sequenza che sviluppa vari argomenti tra cui quello della necessità della precisione nel linguaggio, che significa chiamare le cose con il loro nome: non è solo un fatto stilistico estetico, ma è una questione etica. Il grado di affidabilità di quello che diciamo si misura sulla chiarezza: se le parole hanno significati confusi, perché non le sappiamo usare o perché vogliamo manipolare, la comunicazione con gli altri perderà di senso e la capacità di fare promesse e mantenerle, cioè l’essenza della vita in comune, diventerà sempre più labile. E così il senso stesso della vita democratica sarà indebolito. Le società in cui le parole perdono il loro significato, in cui si attenua la forza delle parole di indicare le cose, sono in crisi e vanno incontro a una grave perdita di legittimazione delle istituzioni. Purtroppo è quello che abbiamo sotto i nostri gli occhi».

È facile che i cittadini si allontanino da una politica che non “comunica” più con loro, e nasce anche da qui tanto “disimpegno”. Invece non si può non prendere una posizione, parteggiare, diceva Gramsci, ma oggi, lei spiega, a volte si confonde l’impegno con un certo attivismo velenoso su Internet…

«Si confonde facilmente l’invettiva in Rete con l’impegno che è invece l’opposto, una forma mascherata e velenosa di disimpegno. “Impegno” è vedere le cose che non vanno bene e immaginare azioni per modificarle e rimuovere le ingiustizie, l’invettiva è una operazione inerte e tossica che produce veleno che si diffonde nelle nostre e altrui vene e non prospetta alcuna alternativa. Come diceva Margaret Mead, “il profeta che ammonisce senza presentare alternative accettabili, contribuisce ai mali che enuncia”: è esattamente quello che accade oggi da noi».

E, per spiegare questo, lei fa una differenza importante tra “sdegno” e “indignazione”, a proposito di dare un nome alle cose.

«Esattamente, è la chiave di questo discorso. Lo sdegno è una reazione di tipo tossico, di disprezzo e di rancore verso un individuo o una collettività, una manifestazione di odio priva di qualsiasi contenuto trasformativo. Invece l’indignazione è ribellione rispetto all’ingiustizia e include una prospettiva di cambiamento del mondo, una soluzione del problema. Abbiamo una società troppo ricca di sdegno che avrebbe invece bisogno di maggiore capacità di indignarsi, suggeriva Martin Luther King».

Chi protesta spesso non va a votare e l’astensionismo è diventato un altro partito. Saramago nel “Saggio sulla lucidità” immagina un luogo in cui tutti votano scheda bianca, costringendo così i politici a cambiare i nomi in lista e i programmi. A proposito di ribellione culturale, che cosa ne pensa?

«Vanno rispettati tutti i punti di vista, secondo me, quando sono posizioni motivate e non certo quando sono specchio di indifferenza. Però, pur rispettando la scelta, dubito che funzioni pensare che non andando a votare qualcuno capirà e qualcosa cambierà, credo invece che si finisca spesso per favorire chi è più lontano da noi. Penso alle elezioni americane e a Trump che è stato eletto anche da chi non ha votato nessuno per non scegliere chi era meno lontano da sé. Lanciare messaggi in politica sperando in azioni di lungo termine ci riporta all’insegnamento di Keynes che ammoniva: “nel lungo periodo saremmo tutti morti”. La politica dovrebbe servire intanto a migliorare oggi la vita delle persone, non tra vent’anni quando altri pericolosamente attivi avranno fatto scempio della democrazia».

Da anni lei ripete che il mondo comunque va migliorando, che tante cose funzionano meglio, che i delitti di mafia sono diminuiti ecc. E questo libro è ottimista e dimostra, dati alla mano, che la Storia si muove verso il progresso. Fa anche previsioni sulla soluzione della fame nel mondo grazie alla “non indifferenza” di tanti uomini...

«Basta guardare i dati nel libro sulla fame per vedere che 30 anni fa era spaventosamente peggio di oggi, 20 anni fa era peggio, 10 anni fa un poco peggio, oggi è meglio e tra altri 10 anni non potrà che migliorare. Questo non vuol dire che si può mettere l’anima in pace, anzi finché morirà di fame anche un solo bambino sarà sempre troppo. Finché ci sarà chi ritiene che sia un dovere morale risolvere le cose del mondo che non vanno potremmo continuare a migliorare. Cinque milioni di morti saranno pure meglio di dieci, ma dobbiamo lottare tutti per cancellare questi numeri orrendi dalle nostre statistiche. L’umanità e la Storia, con alti e bassi, sono segnati da una direzione positiva, ma non possiamo darlo per scontato. Credo che uno dei massimi pericoli della democrazia nel mondo sia l’aumento delle disuguaglianze, che riduce la fiducia nella democrazia e spalanca il campo ai populismi che sono l’antitesi della democrazia. Una democrazia intelligente, direi proprio “conservatori” intelligenti dovrebbero capire che bisogna contrastare le disuguaglianze, compito storico della Sinistra, per non mettere in pericolo la democrazia».

Va ricordato, perché oggi la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi. Per chiudere, ha un’opinione sulla sentenza di questi giorni sulla trattativa Stato-mafia?

«No, perché non credo sia giusto esprimersi senza averla letta».
 
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