«Milanese, ma appartengo ai tramonti color sangue di cui parla Bodini»

«Milanese, ma appartengo ai tramonti color sangue di cui parla Bodini»
di Elisabetta LIGUORI
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Lunedì 16 Ottobre 2017, 22:20
Alberto Rollo, scrittore ed editor, dal 2009 direttore letterario della Feltrinelli e di recente passato a una nuova avventura professionale presso Baldini & Castoldi, ha fatto arrivare in libreria il suo “Un’educazione milanese” (Manni editori), romanzo di non facile definizione, dalle molteplici anime. Una sorta di attraversamento generazionale, personale quanto collettivo, intimo, a tratti struggente. Un romanzo che è una presa di coscienza dolce e dolorosa insieme; espressione di una scelta, in tempi in cui scegliere pare esser diventato difficilissimo. Luoghi, lessico, libri, persone, quadri, musica, tutto è necessario al farsi di questa scrittura sapiente e autentica, che s’impossessa di alcuni nodi del Novecento e ci spinge “a riva di una memoria nuova”. 

Cosa è per Alberto Rollo una biografia e da quale impulso nasce il desiderio di raccontare il proprio percorso esistenziale? 

«Biografia è di fatto lavoro sulla memoria. Che diventa memoria selettiva. Tutti hanno una vita da raccontare, ma le vite non sono sempre una somma di ricordi. Facebook, Instagram e Twitter ci inducono a sommare. E il risultato è che spesso ci dimentichiamo cosa abbiamo sommato. Tanto che quegli astuti di Facebook hanno istituito “anche” l’evocazione del ricordo. Raccontarsi per me ha voluto dire: scegliere. Dovevo rendere ragione della mia educazione metropolitana, delle forme di questa educazione. Dove alloggiava questa ossessione? E come mai non aveva smesso di agire? Ecco allora che mi son trovato a risalire una strada che si è presentata come narrazione. Milano c’entra, ovviamente, ma solo nel senso che agito su di me (bambino e poi giovane uomo) come “grande città” - vale a dire come luogo in cui le radici non si vedono a occhio nudo. A New York si parla di New York state of mind. Ecco, la mia “biografia” era al servizio del mio state of mind milanese».

Origini salentine e vissuto milanese: come si vive questo apparente contrasto? 

«Non è un contrasto. Milano è fatta di gente che viene da tutta l’Italia - con buona pace dei “padani”. I milanesi intesi come “meneghini” sono una micro-realtà che neppure il dialetto riesce ad esaurire. Mio padre mi ha insegnato la fierezza di avere origini leccesi e in questo ha rivelato la sua vera grandezza di uomo metropolitano, un campione di quella che oggi è chiamata inclusione. Ho assistito a mutazioni - in anni recenti - che mi hanno sconcertato: adesioni alle ruvide tesi del leghismo più ottuso da parte di molti figli dell’immigrazione, in nome, credo, di piccole forme di benessere. Non dobbiamo meravigliarci di Trump. Noi abbiamo già conosciuto quella “insanity”, quella chiamata che lavora dentro la depressione e produce deriva morale e slogan brutali».

Lecce e Milano: due città in movimento? Dove va una e dove l’altra? 

«Milano è là come una realtà felicemente contraddittoria, come un patrimonio di forme di lingue di culture diverse. Un patrimonio che le amministrazioni non sempre intendono come risorsa. Ma c’è, malgrado la tendenza a deprimerla. Uno dice Milano e magari pensa a Mediaset e invece c’è stato Martini, qualcosa di più di un cardinale che ha saputo far parlare i laici, c’è la caserma Montello, modello eccellente di rapporto fra città e nuova immigrazione, c’è la città degli architetti, ma sì, anche quella, che ha ridisegnato il teatro della quotidianità. Lecce (e il Salento) stanno vivendo ormai da anni un fenomeno esplosivo che parte dalla bellezza e dalla vitalità (culturale e anche economica) ma che non sempre è ritornata alla bellezza e alla vitalità. Ora si avverte una consapevolezza più forte, così almeno mi sembra di intendere. Conosco poco la stratificazione sociale della città, ma ho la sensazione che si muovano sane contraddizioni. E faccio il tifo».

I luoghi che abitiamo ci trasformano. Quanto ha inciso il paesaggio salentino nel suo modo di sentire e perché? 

«Lo racconto anche nel libro. Lecce è stata per anni una leggenda familiare. Quando a vent’anni ci sono venuto e ho recitato la parte di quello con gli ulivi e il barocco dentro l’anima sono stato messo al mio posto da un’anziana zia che mi ha etichettato come “u’ milanese”, come dire che non avevo diritto a rivendicare alcunché. Aveva ragione lei. Eppure non ho mai smesso di pensare che appartenevo ai tramonti color sangue di cui parla Vittorio Bodini, all’oro delle pietre consumate dal vento, agli occhi normanni di zia Giuditta. Il paesaggio salentino non è soltanto campagna e urli di campanili e masserie abbandonate e lu mare in fondo, è un paesaggio di uomini e donne. Io spesso sogno facce che ho visto qui e mi commuovo come davanti all’emergenza di un sentimento».

Cosa ne è stato della più grande promessa tra le promesse, quella di cambiare il mondo? 

«È stata una promessa. E come tutte le promesse non si è esaurita quando non si è compiuta. Ci sono epoche in cui essere giovani coincide con l’urgenza di sovvertire “lo stato di cose presenti”. Lo sapevano i mazziniani, lo sapevano i pellegrini della Mayflower, lo sapevano i comunardi, e l’ha saputo la generazione che avuto vent’anni nel primo quinquennio degli anni Settanta. Se una promessa si spegne, se ne accende un’altra di cui magari non conosciamo ancora i contorni. Non mi piace guardare indietro. E non mi piace la nostalgia. Il passato è una porta aperta su quello che verrà, su ciò che saranno quelli che non conosciamo. Forse il futuro si è contratto ma dobbiamo imparare a guardare, prima ancora di capire, e chiederci, ora, che cosa abbiamo in testa». 
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