Palmisano, lettera d'amore alla "città spezzata"

Palmisano, lettera d'amore alla "città spezzata"
di Giorgia SALICANDRO
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Lunedì 27 Settembre 2021, 08:42 - Ultimo aggiornamento: 12:36

Quartieri come compartimenti stagni, persone e comunità imprigionate nel solco di rette parallele , una vocazione commerciale “svenduta” alle grandi catene. È un ritratto tagliente quello che lo scrittore, sociologo e imprenditore culturale Leonardo Palmisano dedica a Bari, protagonista del suo nuovo lavoro d’inchiesta, “La città spezzata”, edito di recente da Fandango. 

Dopo la trilogia che indaga l’universo dei migranti (“Ghetto Italia”, scritto con Yvan Sagnet, “Mafia Caporale”, “Ascia nera”) Palmisano accende un faro sul capoluogo barese – la sua città – terzo centro del Sud Italia dopo Napoli e Palermo. Un lungo lavoro di ricerca e scrittura, durato cinque anni, nel quale interviste e dati confluiscono in un attraversamento personale e “sentimentale” della città. 
Leggiamo nel libro: «Le immagini che conserverò sempre, pensando a Bari, sono due: il Teatro Petruzzelli in fiamme e l’abbattimento di Punta Perotti». Sembra quasi impossibile una fotografia della città ritratta nella sua “medietà”...
«È così. Bari non ha una propria “cultura media”. È una città o profondamente sottoculturata, o molto colta. Bari non ha più una classe media, anche socialmente è una società di estremi. I trasporti ne sono l’emblema: una parte della città ben servita, il resto collegato ai luoghi del potere o del consumo, ma non al proprio interno. Manca una “città media” rivendicativa. “La città spezzata” è così anche nei singoli quartieri: chi ha scelto di abitare a Bari Vecchia perché apprezza la città di pietra non ha grandi relazioni con il quartiere popolare. Questa contraddizione socioculturale dovrebbe essere colmata dalla scuola e dall’Università, ma non accade. Persino nelle mafie ci sono i “vangeli”, i grandi potentati, e i “vastasi”, i piccoli clan tradizionali che non hanno l’intelligenza imprenditoriale di investire nella finanza».
All’“anarchismo” e all’autenticità degli abitanti di Bari Vecchia dedichi un racconto molto partecipato. Nella città borghese, che descrivi come “arrogante” e “arricchita”, non ritrovi la stessa autenticità. Come mai?
«Bari Vecchia ha una propria identità, anche “mista” ma tuttavia unita: è eccentrica rispetto ai poteri centrali. Il mondo borghese barese non ha mai avuto propria autenticità. Quando Bari parla del proprio sviluppo pensa ora a Marsiglia, ora a Parigi o a Milano, diversamente da Napoli e Palermo, che per il fatto di essere state sedi di grandi poteri politici hanno maturato una robusta idea di sé. Anche dal punto di vista produttivo, Bari non ha mai avuto un solo motore economico. Il vero potere è di quelli che controllano il cemento, che interviene all’interno della vita politica, e anche laddove vi sia o vi sia stata una proficua conflittualità compromette la possibilità di realizzare una continuità progressista».
Arrivi a scrivere che la stessa vocazione commerciale è “cosa falsa”. 
«Ormai è finta. Bari oggi non ha nulla in più di un qualunque paese della Città metropolitana. Questo perché è stata considerata una città da mungere, facendo in modo che sorgessero ipermercati e gallerie di grandi catene che ora sono peraltro in totale crisi. Il colpo d’accetta definitivo è arrivato con l’apertura degli outlet, che spesso vedono l’ingresso di investitori molto discutibili. Tutti sappiamo, del resto, che questo tipo di attività spesso è messo su da coloro che svuotano, anche a mano armata, i magazzini di altri esercizi caduti in crisi. Ma gli esercizi di prossimità che vogliono distinguersi, sui quali si poggia la storia commerciale della città, scompaiono anche per un vizio interno: la generazione di mio nonno ha costruito il grosso del commercio barese, quella di mio padre ha vissuto un po’ sugli allori, la mia ha perduto tutto nei vizi, carte, eroina, cocaina e sesso a pagamento. Anche queste dipendenze contribuiscono a favorire, attraverso l’usura, l’introduzione del denaro mafioso nel sistema legale».
Da chi può partire una nova stagione della città?
«Ho dedicato un capitolo a chi vuole farcela. Se vediamo la Banca Popolare di Bari che sta fallendo il suo compito, la Gazzetta del Mezzogiorno chiusa, una squadra di calcio a cui vengono affidati i destini sportivi di una grande città che è ancora in serie C, comprendiamo che il fermento che si potrà costruire guardando al futuro non verrà dal commercio. Verrà invece da chi fa delle cose, anche in dialogo con altri Paesi, e al momento non ha molto mercato né sostegno a Bari. La giovane editoria emergente, ad esempio, l’imprenditoria culturale, sportiva, chi si occupa di rigenerazione. Va ripensato il rapporto tra coloro che imprendono producendo valore e innalzando moralmente il sistema economico locale e coloro che devono favorire l’impresa. In una fase come questa molto critica, aggravata dalla pandemia, si assecondano ancora i commercianti da generazioni o i palazzinari che ormai hanno debiti milionari. In tutto ciò, c’è un problema ancora più serio: abbiamo un welfare debolissimo».
Secondo il Sole 24 Ore, ad avere una qualità della vita bassa sono soprattutto le giovani generazioni.
«Che poi sono quelle che partono.

La città sta perdendo le persone che possono cambiarla. Non sarà solo il reddito di cittadinanza a mantenere la popolazione, né interventi spot, o attendere Amazon, Ikea, Eataly, quest’ultima andata via a meno di un decennio dal suo arrivo. O men che meno accontentare desideri di pancia, “scenografici”, proponendo concerti di Gigi D’Alessio e ruote panoramiche. Che cosa stiamo comunicando? Niente che rappresenti un’idea di qualità della vita o di cultura alte».

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