L'intervista/Massimo Cacciari
«Il Pd? Meglio dividersi
in liberal e laburisti comunque alleati»

L'intervista/Massimo Cacciari «Il Pd? Meglio dividersi in liberal e laburisti comunque alleati»
di Francesco G. GIOFFREDI
4 Minuti di Lettura
Martedì 4 Giugno 2013, 13:46 - Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 11:16
LECCE - Professor Massimo Cacciari, il dibattito monopolizzato dal tema delle riforme istituzionali. A partire da una svolta in senso presidenzialista: praticabile, con questo governo e con questo scenario?

Non c’ nessun margine per affrontare un tema cos complesso con questa maggioranza. Temo si tratti di fumo per nascondere l’incapacit a dare risposte a cose pi ravvicinate e concrete, come le emergenze economiche. Una riforma presidenzialista comporta un governo di grande forza e compattezza. Detto ciò, gli ultimi anni dimostrano la necessità di un rafforzamento dell’esecutivo in direzione presidenzialista. E lo dico da 25 anni».

Tuttavia, è una riforma tabù in certa parte del centrosinistra. Perché?

«È il retaggio di una vecchia cultura parlamentaristica, di un’ideologia della centralità del Parlamento presente nel Pci e nella Dc e ora nel Pd, o in chi teme perennemente una deriva anti-democratica».

Peraltro chi oggi teme la svolta presidenzialista, sono quei parlamentari che durante la bufera sul Quirinale dissentivano dalla linea ufficiale del Pd perché «ce lo dice la base e il web». Cioè i cittadini che con la riforma voterebbero direttamente.

«È un modo di ragionare sconnesso. Da almeno due anni viviamo in una situazione di presidenzialismo coatto. Diciamo che c’è una “emergenza” e c’è bisogno di un governo efficiente e rapido nelle decisioni: e allora cosa c’è di meglio di un governo retto su un premier votato direttamente dal popolo? Il che comporta un rafforzamento del livello parlamentare e delle autonomie».

Come s’intreccia questo dibattito con la riforma elettorale?

«Non ha alcun senso parlarne se non si colloca in un’idea di democrazia. Se sono per il parlamentarismo puro, è giusto il proporzionale. Se sono per un modello presidenzialista, il sistema cambia. Ma non ha senso discutere di legge elettorale senza capire qual è l’idea di democrazia, i rapporti tra Parlamento, governo e autonomie, o che tipo di bicameralismo vogliamo. Lo stesso tema della riduzione dei parlamentari implica un sistema elettorale che cerchi di eleggere davvero i rappresentanti più qualificati. E in questa direzione l’unico sistema serio è quello dei collegi uninominali».

È saltato del tutto il meccanismo della rappresentanza politica? E i partiti hanno esaurito completamente spinta e ruolo?

«Senza partiti non si può pensare alla democrazia. Non possiamo essere illusi al punto da ritenere che possa esserci la democrazia diretta, con un quesito posto via computer. La democrazia è rappresentativa, dobbiamo stabilire i sistemi elettorali per selezionare la classe dirigente, e per far questo l’unico strumento sono i partiti. Ma il sistema della rappresentanza nel nostro Paese è saltato perché nessuno dei gangli fondamentali è stato riformato, né funziona».

Nel 2013, e rispetto al 2008, il 40% degli italiani ha votato in modo diverso: una fluidità ormai connaturata al sistema, o il frutto di una stagione?

«C’è più fluidità di una volta: il senso di appartenenza ideologico è meno forte, anche se in alcune aree dell’Italia centrale e tosco-emiliana il voto al Pd è di appartenenza. Ma soprattutto cresce il non-voto: è il sintomo del malessere, la gente ritiene che il sistema non funzioni. E allora il voto o non c’è o è di protesta: anche nel Pd e nel Pdl c’è il voto di protesta, quando si sceglie perché non c’è nulla di meglio».

Il Pd s’avvia al congresso: molto più di un cambio di leadership, è in gioco la stessa essenza e struttura del partito.

«Nel Pd convivono modelli diversi di partito, di società, di economia. Ci sono famiglie incompatibili, è inutile insistere in un’idea, è un accanimento terapeutico: sono emerse personalità che 6-7 anni fa non c’erano, quando qualcuno - tra cui io - pensavano alla nascita del Pd. Ora si costruisce una leadership attorno a persone tra loro incompatibili: cosa lega Barca a Renzi? Nulla».

Meglio divorziare, allora.

«Prima che si massacrino in famiglia a coltellate, va preso atto che ci sono due aree che non sono riuscite a fondersi: quella movimentista, del partito debole, della società fluida, con un impianto liberal; e poi c’è l’anima socialdemocratica pura. Insieme possono governare, come in tanti Paesi europei. Il progetto però si può salvare non stando in un partito unico, ma in una coalizione di governo: continuando a delegittimarsi reciprocamente il Pd finirà per ridursi al 10%; invece un partito di radicamento socialdemocratico il suo 18-20% lo raggiunge, e una forza con a capo Renzi un ulteriore 16% lo prende, e insieme possono avere la maggioranza parlamentare. C’è una diversità culturale-antropologica in queste componenti, che gli uomini di buona volontà pensavano potesse risolversi nel tempo, ma invece sarà un continuo dialogo tra sordi, proprio com’è successo con l’Ulivo di Prodi».

Il fenomeno Grillo in via di esaurimento, ormai? O è solo una scossa di assestamento?

«È un fenomeno populista che si regge sulla presenza ossessiva del leader. Nello stesso giorno in cui il M5s sfondava alle politiche, il suo candidato alle regionali in Lombardia prendeva la metà: la gente ha votato solo Grillo e il suo messaggio. Se domani torniamo a votare prenderà molto meno, perché ha scontentato sia quelli di destra - visto che continua a fare discorsi di sinistra - che quelli della stessa sinistra, non avendo raggiunto l’intesa sul governo con Bersani. Però raggiungerà un risultato comunque migliore delle amministrative. Detto questo, Grillo non vuol governare questo Paese, è evidente: parla solo di controllare e sorvegliare. Anche perché non ha alcuna idea di come si governa, non gli ho mai sentito dire una parola su politica industriale, economia, Europa».

© RIPRODUZIONE RISERVATA