Scavo: «Il mio diario da Kiev come un dispaccio di guerra»

Scavo: «Il mio diario da Kiev come un dispaccio di guerra»
di Alessandra LUPO
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Mercoledì 6 Luglio 2022, 11:09 - Ultimo aggiornamento: 17:56

La capitale ucraina colta a partire dai giorni immediatamente precedenti all'entrata in guerra. Nello Scavo, inviato speciale di Avvenire, tra i giornalisti di guerra più apprezzati del Paese, racconta nel suo ultimo libro, Kiev (Garzanti) il suo personale diario dal fronte. Una documento costruito in presa diretta, che questa sera alle 20 sarà presentato al Chiostro degli Agostiniani di Lecce nell'ambito della rassegna di comunicazione politica e giornalismo “Io non l'ho interrotta”. Con Scavo dialogherà la giornalista Paola Ancora.
Nello Scavo, lei era lì alcuni giorni prima del fatidico 24 febbraio. Tirava un'aria tesa, certo, ma in pochi si aspettavano che in poche ore la situazione sarebbe precipitata.
«Io sono arrivato lì il 21, tre giorni prima che scoppiasse la guerra perché ormai era chiaro che ci sarebbe stato il conflitto. Ma non era chiaro che si partisse da Kiev: l'attenzione era sul Donbass, ovviamente, dove pensavo di spostarmi».
Invece cosa accadde?
«Iniziai a lanciare un po' di ami, come si fa in questi casi, con esiti contrastanti: esistevano piani di evacuazione ma in generale i diplomatici escludevano un attacco alla città. C'era tensione ma i supermercati non erano stati presi d'assalto: nessuno si aspettava le bombe».
Non tutti però la pensavano così. Lei fu avvisato da un uomo.
«Infatti, un diplomatico in particolare mi fornì prove tangibili della sua premonizione e decisi di restare. Purtroppo il 24 arrivò la conferma: il missile alle 4.50 senza nemmeno le sirene».
Ha raccontato di essere stato colpito dai giovani, non diversi da quelli che potrebbero incontrarsi sui Navigli a Milano. E di aver pensato che non avrebbero mai potuto difendersi in una guerra
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«Ha espresso benissimo questo concetto De Gregori ne La storia, quando dice che arriva un momento in cui tutti sanno benissimo cosa fare. La popolazione convive con il conflitto del Donbass da otto anni ma è come sarebbe per un pugliese sapere che ce n'è uno in Alto Adige. Rispetto a quella generazione abbiamo pensato se arrivano i Russi la loro resistenza si squaglierà. Invece non è stato così».
Nel libro ha deciso di tenere traccia di questi errori di valutazione, c'è un motivo?
«Sì, ho scelto di scrivere il libro come un diario perché volevo confrontarmi con l'epopea dei dispacci dal fronte ma volevo anche mettere a nudo i nostri errori di valutazione. Questo aiuta a capire anche i nostri pregiudizi, come nel caso della resistenza, che ha coinvolto tutti: chi nelle retrovie preparando da mangiare, chi imbracciando un fucile. E hanno fatto la differenza».
Ha anche descritto la disperazione dei bambini, che si sentono traditi dai padri impegnati nella guerra. Potrebbe sembrare un po' l'altra faccia dell'abbandono dei figli che da parte delle badanti che per decenni hanno lasciato gli stessi paesi per accudire le nostre famiglie? Insomma a pagare sono sempre loro.
«Sì e sta accadendo in un momento in cui le famiglie si stavano riunendo, l'Ucraina aveva avuto una certa ripresa economica e il numero di badanti all'estero era infatti diminuito. Adesso l'altra faccia della disgregazione familiare sono i padri. Alcuni vanno a combattere perché fanno parte di gruppi militari ecc. Per altri, dai 18 ai 50 anni, si tratta invece di rimanere a disposizione. In virtù della legge marziale possono essere arruolati in qualsiasi momento. Per questo, mi capita spesso di dire che la guerra potrebbe anche finire domani: noi cambieremo canale in tv, ma in realtà per loro non finirà mai».
A lei e al suo giornale viene riconosciuto il merito di occuparvi anche dei conflitti che non sono mainstream. Come si tiene alta l'attenzione su quello che non ci minaccia direttamente?
«Io credo che a dispetto di quanto si pensi, il giornalismo italiano sia troppo legato ai fatti. Noi spesso entriamo nei dettagli di quanto accade ma perdiamo la capacità di dare un contesto. Abituare il lettore a dare profondità alle storie vuol dire fargli cogliere la concatenazione dei fatti. In questo caso, io credo che quando il Papa parla di "Terza guerra mondiale combattuta a pezzi" intenda proprio questo: le armi usate in Ucraina hanno spesso lo stesso marchio di quelle utilizzate in Siria, trascurare il contesto fa il gioco di chi la guerra la vuole come standard di vita e di gestione del potere».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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