Donne, Islam e cultura, storie di libertà negata

Donne, Islam e cultura, storie di libertà negata
di Claudia PRESICCE
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Giovedì 11 Agosto 2022, 05:00

Il tema è delicato, ma parlarne è importante. Al di là di posizioni politiche o religiose. Molto prima. Le donne sono nate libere e così devono restare. Se già nella società italiana ci sono limiti a questo assunto, con resistenze di un vetusto sistema patriarcale pseudocattolico (pensiamo alle anacronistiche richieste di restrizioni della legge sull’aborto), tutt’altra storia raccontano le notizie di coercizioni e privazioni di libertà estreme, spinte fino alla morte, come nel caso della piccola Saman Abbas. Con l’idea che non tutto l’Islam sia uguale, va riconosciuta l’esistenza di aree occupate da recrudescenze fondamentaliste islamiche all’interno delle quali la donna viene violentemente irretita. L’aggressività radicale nei suoi confronti è già insita nella semplice privazione del diritto di scelta della propria vita. Questo discorso va affrontato delicatamente, considerando che può scivolare verso derive xenofobe e ripugnanti come l’islamofobia.

Parlarne però è importante. Lo fa, con coraggio, la giornalista imprenditrice Annalisa Chirico nel suo libro “Prigioniere. Saman e le altre”.

«È un libro inchiesta nato dalla conoscenza di storie di cui si occupano associazioni che supportano donne e ragazzine di origine islamica che subiscono privazioni della libertà in contesti familiari di immigrati islamici in Italia. In nome di un’interpretazione fondamentalista dell’Islam, pensano di poter decidere della vita delle donne», spiega Annalisa Chirico, che dirige il sito LaChirico.it ed è una firma del quotidiano Il Foglio.

Cominciamo dal libro che parte dalla piccola Saman Abbas, uccisa dai familiari perché ribelle al matrimonio combinato.

«La terribile fine della giovane pakistana ci fa riflettere perché c’è un’inchiesta per omicidio volontario e occultamento di cadavere che riguarda un intero clan familiare, non una sola persona, compresa la madre. È un esempio di storie analoghe da cui parto. Tuttavia questo non è un libro contro l’Islam. È un libro per la libertà delle donne ad ogni latitudine, e per l’integrazione in un Occidente che deve avere l’orgoglio e il coraggio di affermare i propri valori e il proprio modo di vita anche nei confronti di culture diverse. Mi spaventa il fatto che oggi per paura di essere tacciati di islamofobia cediamo sui pilastri fondamentali della società occidentale. La società che, nel bene o nel male, siamo riusciti a costruire, ha diversi limiti, per molti versi è il peggiore dei mondi possibili ma nella realtà è il migliore dei mondi reali, quello che assicura i maggiori spazi di autonomia ad ogni essere umano».

I diritti civili conquistati nella nostra Storia fanno la differenza, ma è importante ricordare che non tutti gli islamici coltivano l’integralismo della famiglia di Saman. Sono sacche retrograde che vanno affrontate: secondo lei come?

«Nel nostro Paese basterebbe affermare i valori e i precetti della Costituzione italiana che impone il rispetto della libertà personale, l’uguaglianza tra uomo e donna, il diritto all’istruzione.

Nel caso dell’Islam fondamentalista, tutti questi elementi vengono sistematicamente violati. L’Islam ha un problema con le donne. I testi sacri si prestano ad interpretazioni che pongono la donna in condizioni di inferiorità rispetto all’uomo, per esempio sulla testimonianza in tribunale, sui diritti ereditari, sulla poligamia ecc. Questa religione, a differenza di altre, non si è sufficientemente evoluta in senso liberale. E per questo vanno supportate le componenti modernizzatrici interne alla comunità islamica. E se questo riguarda dall’interno la religione islamica, noi come Occidente dobbiamo intanto dare supporto alle donne che si ribellano al patriarcato e chiedono aiuto. Dall’altra parte dobbiamo avere l’orgoglio di affermare la nostra cultura, viviamo in un clima claustrofobico in cui si rischia facilmente di essere tacciati di razzismo, con un politicamente corretto portato all’eccesso. Racconto nel libro di una diciottenne francese che vive sotto scorta per aver usato parole forti sui social su Allah e sull’Islam: noi non possiamo concepire in Occidente che qualcuno viva sotto scorta per reati di opinione o per apostasia».

Però l’islamofobia esiste, come il razzismo: riuscire a scindere è importante, perché una battaglia per il rispetto dei diritti civili va oltre queste derive.

«Per questo bisogna supportare chi fa assistenza, associazioni che svolgono un lavoro enorme; e poi monitorare e sanzionare chi porta le figlie all’estero per sottoporle alle mutilazioni genitali, chi impone matrimoni forzati che sono stupri legalizzati, ecc».

È un problema di crescita culturale, di integrazione, no? Le sanzioni sono utili, ma difficilmente sufficienti...

«Ricordiamoci che l’integrazione è un processo sempre bidirezionale. Tanti immigrati sono perfettamente integrati, sono nei nostri team, ma ci sono clan che vivono in Italia come comunità ghetto senza volontà di integrarsi. E devono rispettare le leggi anche quelli».

Il libro in generale riapre discorsi su diritti femminili e libertà delle donne.

«La politica trova risorse per bonus di ogni tipo, ma non trova fondi per le politiche di natalità. In Italia ogni donna fa poco più di un figlio. Abbiamo ancora l’idea che la genitorialità sia un problema soltanto delle mamme, c’è carenza di asili nido e politiche sbilanciate sull’assistenzialismo. Speriamo che i partiti per le prossime elezioni si confrontino sulle disparità salariali delle donne e sulla genitorialità condivisa. Fare figli è importante per una società come la nostra esposta alle immigrazioni, quindi a rischio di scomparire. Dobbiamo garantire la sopravvivenza della nostra civiltà».

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