Tutto il mio mondo in un pallone blu

Tutto il mio mondo in un pallone blu
di Claudia Presicce
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Sabato 25 Luglio 2015, 19:36 - Ultimo aggiornamento: 20:34
Lontano dall’edonismo, dal glamour di plastica che le estati degli anni Ottanta si portarono dietro, obnubilando stagioni di impegno e vivacità politiche e culturali, un bambino cresceva giocando da solo sulle deserte spiagge di Torre Canne. Era Mario Desiati di Martina Franca che intorno ai sei anni veniva “deportato” al mare solo nel mese di giugno, per poi tornarsene in città a luglio quando arrivavano invece i primi villeggianti. Mario era destinato a diventare uno scrittore (l’ultimo suo libro, “La notte dell’innocenza”, ricorda la tragedia dello stadio di Heysel nel 1985), un destino che probabilmente maturò in quelle lontane estati solitarie quando imparò ad inventarsi un’infinità di storie popolate da amici immaginari.



«Le mie estati in una deserta Torre Canne a giugno, tra amici immaginari e le case ancora vuote, erano quelle di un bambino solitario. Era la metà degli anni Ottanta e io passavo questo mese di vacanza da solo con il mio mitico pallone blu e tanti amici “inventati” – racconta Desiati – fino a quando cominciavano ad arrivare i villeggianti di luglio e noi tornavamo a Martina Franca. E lì si verificava un’altro problema: perché Martina lentamente si svuotava e quindi restavo solo anche in città…».



Tutti questi “amici” avranno nutrito il suo immaginario visto che poi da grande ha fatto lo scrittore…



«Sarà… tuttavia la solitudine era assoluta, peraltro anche a luglio e agosto quando spesso ci spostavamo in campagna dai nonni. Anche lì il posto era abbastanza isolato. Il mio vero compagno di giochi era il pallone blu che un giorno verso i cinque anni sparì nel nulla e questo scatenò per me una tragedia vera. Era un “volantino” cioè uno di quei palloni che volano facilmente, leggerissimi, lo cercai in lungo e in largo, ma non lo trovai più. Dopo trentacinque anni, l’ho ritrovato a Villa Ada dove spesso vado a passeggiare… o, meglio, ho visto dei bambini che giocavano con un pallone blu uguale al mio: lo avevano perso nel ruscello e piangevano. Mi sono tuffato e l’ho riportato ai bambini chiudendo un po’ quel cerchio della mia vita».



Oggi com’è cambiata la zona costiera tarantina?



«È una meta turistica molto frequentata, più urbanizzata. Molto è cambiato dal ’91 in poi. L’arrivo degli albanesi modificò in un certo senso la geografia della zona, fu una cosa emozionante e l’ho raccontato nel mio penultimo libro, sulla Vlora, visto appunto dagli occhi di un ragazzino. Nel 1991 a giugno in quella zona improvvisamente ci furono più albanesi che italiani. Oggi è una zona turistica molto frequentata e tutto è cambiato».



E le feste estive quando sono arrivate?



«Le prime che mi ricordo risalgono già ai 18 anni, qui nel tarantino si chiamano “le sciotte”, dal nome della mangiatoia dei maiali. In un libro che si chiama “Foto di classe” ci ho messo queste grandi mangiate, esagerate, fatte apposta per stare male, quasi come un rito dionisiaco che sostituiva il rave con droga. Ti ammazzi di “bombette”, in sostanza, che sono i classici involtini di capocollo di Martina: i più bravi ne mangiavano oltre 70 e poi stavano malissimo. Poi dopo, sino ai 25 anni, l’estate era il momento in cui girare le discoteche più hard, anche in autostop fino a Casarano, da Martina Franca. Seguire i dj o le serate più celebri era un po’ trash, ma per noi era vitale».



Oggi il suo luogo di mare del cuore qual è?



«Marina Serra a Tricase, scoglio “lavaturi”. Dalla fine degli anni ’90 il mio mare è diventato quello salentino, è il mio “buen retiro”.



Ma com’è nato questo amore?



«Ci andavo con la mia ex fidanzata che è della zona. E poi, man mano, quei posti li ho sentiti un po’ miei. Quest’anno ci sono tornato anche per fare un festival letterario, perché coltivo l’idea di agganciare le tante energie meravigliose che ci sono in quell’aria».



La Puglia che è diventata un must turistico, come le sembra?



«C’è da noi un’ottima qualità della ricezione a livello umano, al di là di singoli casi di persone inadatte a questo servizio. Normalmente, anzi, l’accoglienza umana è perfetta, ma mancano però le strade e le infrastrutture. Spostarsi da un punto all’altro di questa lunga regione è un problema, di domenica non ci sono mezzi pubblici, solo due treni da Roma: è ancora una terra dove è tutto complicato. Ho vissuto file apocalittiche all’aeroporto di Brindisi, per non parlare delle strade che proprio mancano e altre cose troppo “piccole” per una terra che vuole pensare in grande. Ma è difficile trovare il pugliese che frega il turista perché ci portiamo nel dna ancora l’accoglienza e la cura degli ospiti fin dai tempi della Magna Grecia. Gli abitanti del Capo di Leuca, sono poi salentini atipici gente di frontiera, di confine, tutta da scoprire».