Francesco Erbani: «A Lecce, come a Venezia, no al turismo distruttivo»

Francesco Erbani: «A Lecce, come a Venezia, no al turismo distruttivo»
di Claudia PRESICCE
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Domenica 17 Febbraio 2019, 20:03 - Ultimo aggiornamento: 20:07
Venezia città impastata di mare e terra, Venezia sospesa in equilibrio tra passato e futuro, che potrebbe vivere solo di sé, studiandosi e accomodandosi sulla sua storia, deve oggi reimparare ad aderire al presente senza snaturarsi. Venezia invece si perde nell'acqua, non della Laguna, ma di quella società liquida che non è capace di affrontare i suoi anacronismi, di coltivare le sue bellezze, di ricostruirsi su una maggiore contezza di sé nel presente e rilanciare. Ma in tutto questo Venezia, mentre nel cuore combatte i morsi di un turismo usa e getta che le sta mangiando il volto, tutto è tranne che una città triste.
Partendo da Le Corbusier che la vedeva come modello di città del futuro, fino alla dimensione odierna che la vede strappata dalle mani dei veneziani, Venezia con la sua potenzialità di essere un incredibile eclettico laboratorio urbano, utile per ogni città italiana, è al centro del libro di Francesco Erbani, giornalista culturale di Repubblica,  "Non è triste Venezia" (Manni; 15 euro), un reportage narrativo dalle calli al Lido, tra luoghi che diventano non luoghi, cercando di capire fino in fondo che cosa si perde di noi se si perde Venezia. 

Erbani cominciamo dal titolo: in che senso Venezia non è triste?

«Il titolo del libro gioca con la canzone di Aznavour, ma richiama anche due stereotipi che gravano su Venezia e sarebbero da smontare. Il primo è quello della città romantica per eccellenza, delle lacrime e del Ponte dei sospiri, e il secondo quello della città chiusa nel suo passato, senza futuro né cose da dire oggi, e quindi morta. Venezia è invece viva, ma corre il rischio di perdere la sua dimensione urbana, di non essere più una vera città, diventando invece solo una scenografia utile per il turismo. Il tentativo del libro è raccontare la storia di una città che è potenzialmente più città di altre, in cui si sono salvaguardati nel tempo molti elementi vitali di una città ideale, in cui per esempio il fatto di camminare a piedi senza circolazione di auto ha preservato lo scambio diretto e costante tra le persone, il vicinato».

Idea anacronistica questa del rapporto quotidiano tra i veneziani rispetto al fatto che, come spiega nel libro, la città si va spopolando. Cioè aumentano i visitatori, ma diminuiscono gli abitanti (non in senso direttamente proporzionale ovviamente).

«Certo, il rischio è proprio che un grande patrimonio, la qualità del costruito e questa storia urbanistica della città vengano messi in pericolo dal turismo che aggredisce Venezia e che ha superato ogni limite di sopportabilità. Con la pressione turistica crescente cala ogni anno il numero dei residenti della città insulare, oggi arrivata a meno di 53mila abitanti. C'è poi anche un saldo demografico negativo, perché muoiono più persone di quante ne nascono. La città quindi rischia di perdere uno degli elementi vitali della dimensione urbana che sono i residenti, custodi della storia del luogo. Quindi Venezia avrebbe le potenzialità per essere una città modello del futuro, per questi ed altri elementi, ma rischia invece di concludere la propria storia di città».

È un rischio che, con grandi differenze, si corre anche nel Salento, recente meta scoperta dal turismo usa e getta, concentrato d'estate, dove le storiche abitazioni familiari sulla costa sono diventate case vacanze. Con quali politiche si può affrontare questo fenomeno?

«La prima cosa è rendersene conto. Il turismo è una specie di grande industria e molte realtà urbane, abbagliate dal moltiplicarsi delle prenotazioni, possono pensare che si possa vivere di turismo, anche esclusivamente di turismo. Ed è una tendenza pericolosa da capire in tempo. Venezia in questo senso parla anche di voi, cioè di tante città a vocazione turistica, e dimostra quanto il turismo invece sia una grande macchina che va governata, che rischia di mangiarsi la risorsa dalla quale è alimentato. Se si viene a visitare Lecce si vogliono vedere anche le persone che la abitano, e la vita reale che si fa nel suo centro storico. Ma quando il turismo è distruttivo diventa come un'industria estrattiva che spreme un luogo come una miniera fino all'inverosimile. Bisogna invece guardare alle città come piante da coltivare, con i centri storici da custodire, da tenere in vita con tutti gli elementi costitutivi della dimensione urbana, come la residenza quindi. Politiche adottabili dalle amministrazioni comunali ce ne sono: si potrebbero ad esempio limitare i giorni degli affitti delle case ai turisti o i cambi di destinazione d'uso degli appartamenti residenziali, oppure evitare di liberalizzare senza limiti il commercio, che ormai finisce per sconvolgere le normali attività destinate ai residenti per concentrarsi solo sulla ricezione turistica: ci sono in pratica solo bar e ristoranti al posto di calzolai e salumerie. Leggere bene la realtà e agire di conseguenza è alla base di un'utile prevenzione che a Venezia è mancata».

Nel libro suggerisce anche la possibilità di intercettare un'altra tipologia di visitatori, studiosi o chi è interessato realmente a conoscere la natura di una città. Turismo culturale, ma non solo.

«Venezia da questo punto di vista è un elemento estremo, perché è una città laboratorio che, dal punto di vista storico, artistico, architettonico, per il restauro, può attirare oltre ai turisti culturali, persone che vengono a studiarla, per collaborare alla manutenzione della città. E anche per l'equilibrio ambientale, Venezia che ha sempre salvaguardato la Laguna, il suo ambiente naturale, almeno per tutto l'800, oggi può attirare studiosi di biologia marina, di idraulica: studiare la morfologia lagunare è un'attività fondamentale per la salvaguardia della città e studiosi, ma anche artigiani, tecnici ecc, possono dare il loro contributo. Questo meccanismo può essere adottato anche altrove, attirando in Italia quel flusso di giovani ricercatori che si muove in Europa molto attivamente, che concepiscono il risiedere in una città non come un'attività definitiva: è uno stile dell'abitare che si afferma nelle città europee. Perché nelle città italiane dotate di tantissime attrattive non avviene? Anche a Lecce l'università potrebbe trattenere molti studenti fuori sede per continuare i percorsi di ricerca o di attività a lungo termine. Non è turismo culturale, ma affermazione dell'idea di residenza, sia pur temporanea, che può far ripopolare virtuosamente quei centri storici disabitati, attraverso politiche abitative corrette di attrazione verso le professioni legate alle attività culturali, o all'ambito dei cosiddetti creativi con laboratori d'arte collegati con altri luoghi del mondo. Venezia da questo punto di vista ha una grande potenzialità inespressa».

Tra le tante cose, lei dimostra come la dimensione urbana di Venezia resti viva anche conservando due altri elementi della sua storia: il riciclo dei materiali e l'appiattimento delle differenze, culturali, religiose, etniche ecc. Può accennare come questi aspetti la rendano modello di città del futuro?

«Sì, sono elementi che rendono viva Venezia. Intanto non si è mai espansa, si ricostruisce da sempre su se stessa senza consumare suolo, riciclando tutti i materiali degli edifici e riutilizzandoli sempre, perché è una città che ha poche risorse. Anche l'acqua piovana era una risorsa che veniva riutilizzata al meglio, avendo solo acqua salata intorno: tutti i palazzi di Venezia hanno un sistema di canalizzazione di gronde per alimentare i pozzi (poi curati con una manutenzione speciale). Questo sistema si è perso e va recuperato, e può davvero diventare modello di città del futuro. Così come la dimensione dello scambio è forte a Venezia ed è visibile: c'è il Fondaco dei turchi, poi il Fondaco dei tedeschi (il fondaco è la residenza in cui si ospitavano i mercanti che venivano da fuori, con i magazzini al pianoterra), ci sono chiese per le comunità degli albanesi, dei greci, e poi ci sono i campi. L'analogo della piazza a Venezia è il campo che, con una dimensione più quotidiana senza monumenti e senza auto, è un luogo di convivialità e convivenza tra generazioni diverse, vecchi e bambini, e etnie diverse che da sempre convivono in questa città ospitale per natura. Basterebbe leggere le denominazioni delle calli che rievocano i rapporti con le popolazioni più lontane, con l'Oriente e la Cina ad esempio. È una città abituata ad accogliere e confrontarsi con il diverso. Perché pur avendo un'identità forte insulare è inclusiva, non esclusiva, e si arricchisce del rapporto con gli altri».
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