Puccetto, i colori della materia sui dolori della vita

Puccetto (Foto: Vito Luperto)
Puccetto (Foto: Vito Luperto)
di Marinilde GIANNANDREA
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Martedì 13 Marzo 2018, 12:19 - Ultimo aggiornamento: 12:21
«Entrai nel casello il 3 ottobre del 1987». Puccetto, al secolo Antonio Rocco D’Aversa, lavorava nel casello ferroviario di Tutino-Tricase delle Ferrovie Sud Est. Un luogo immerso nel silenzio di un territorio luminoso e solitario, dove trentadue anni fa ha cominciato a dipingere per un’urgenza esistenziale che nasceva dalle ferite dell’infanzia. Nel corso di questa lunga attività periferica, si è confrontato con la materia in un in un dialogo ininterrotto. Puccetto parla di sé in terza persona e definisce le opere accatastate sulla parete del Casello 34, “imbrattamenti”. Dipinge facendo affiorare i dolori e le fratture della vita, perché la pittura lo fa stare bene, e quando sulla superficie delle tavole si è accumulata la polvere del tempo i lavori arrivano a identificarsi anche con il paesaggio forse perché sono dominati dall’energia della materia. È una pittura impetuosa e poetica, con accenni di colori intensi, ma non è il colore a interessarlo, è piuttosto il processo che si compie nella sovrapposizione degli strati e degli spessori.
I pannelli di legno su cui incolla le tele dipinte sono tanti, appoggiati a un muro, come un diario, che bisogna impegnarsi a sfogliare. Dipinge solo con le mani e con le dita, partendo da centro e andando verso i margini, perché il centro è la chiave esistenziale e il cuore pulsante del suo lavoro. In questo processo, a cavallo tra la pittura informale e l’Espressionismo astratto (ma Puccetto è totalmente autodidatta e, quindi, immune da influenze e assonanze), gli spessori della materia fanno intuire il tempo necessario ai processi di asciugatura e alle stratificazioni, mentre il tempo segna anche il lento movimento di distacco del colore che provoca crepe e fessure.
Oggi il controllo dei treni si è automatizzato e il casello, sopravvissuto per il momento alla chiusura, è il suo studio-rifugio. L’edificio si staglia con il suo volume antico tra il cielo e campagna e i segni sui muretti e sulle pareti hanno un’assonanza con quelli delle opere dipinte.
 

Puccetto ha un folto gruppo di estimatori e collezionisti, tra tutti l’attrice Helen Mirren e suo marito, il regista Taylor Hackford, che hanno portato il lavoro a Hollywood. Non è un caso che oltreoceano sia piaciuto tanto. Evoca la pittura della galassia action painting, il senso di libertà, di improvvisazione, di accumulo, che non segue apparentemente alcuna logica, ma che una logica ce l’ha ed è dettata dalla materia: «quando la materia dice basta, Puccetto si ferma», sottolinea con forza.
Le opere hanno attraversato un processo di cambiamento, «prima mescolavo i colori ora ho in mente anche un progetto, so dove voglio arrivare», lo dimostra uno dei suoi ultimi lavori dipinto su una tovaglia di plastica. I segni delle piegature formano un reticolo geometrico su cui si sovrappone il segno libero del colore. Ordine e disordine, il caos dentro uno spazio regolato ortogonalmente. E se gli si chiede se quello è un punto di arrivo, risponde che «il lavoro migliore è quello che verrà». Poi c’è la scrittura, perché sui muri del casello appaiono ripetutamente le parole “verità” e “libertà” mentre su una tavola, improvvisata su un pezzo di polistirolo, si legge «[…] Sono un secolo di troppo un secolo di silenzio e di argilla, un campo tracciato dalla notte. Il mio corpo è un incendio».
La libertà ha un prezzo. La sua ultima personale è del 2009, al Castello Carlo V di Lecce, ma Puccetto rifiuta le logiche delle mostre e del mercato che sente estranee. Del resto il rapporto con la fama non lo perseguita, anche se dichiara che gli sarebbe piaciuto essere riconosciuto dai suoi concittadini prima degli articoli sui giornali, dei servizi televisivi e dei film che gli hanno dedicato. E oggi, che ha un folto numero di collezionisti e ammiratori, continua a firmare e dedicare le proprie opere, tutte senza titolo, solo su richiesta. È consapevole che il suo personaggio potrebbe rientrare nella leggenda dell’artista folle ma non è così, però l’unico film che lo ha rapito è stato quello su Antonio Ligabue. Dopo averlo visto, ha buttato il televisore e ha capito che l’unica cosa che lo distingueva dal pittore svizzero-emiliano, era che Ligabue aveva una motocicletta rossa e lui una vecchia bicicletta arrugginita.
Gli è stata rubata e ora vorrebbe solo ritrovarla.
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