«Gladio e P2? Simbolico desecretare quegli atti»

«Gladio e P2? Simbolico desecretare quegli atti»
di Generoso PICONE
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Giovedì 5 Agosto 2021, 05:00

«Niente». Giovanni Pellegrino non si aspetta altro che il resto di niente dagli atti relativi a Gladio e alla loggia P2, desecretati dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, e consegnati all’archivio centrale. Possibile che non emergano novità, rivelazioni, magari conferme dai documenti dove si raccontano decenni di misteri d’Italia?

«Niente che già non si conosca. È già tutto chiaro: naturalmente per chi voglia capire», risponde l’ex senatore del Pci e poi del Pds, dal 1996 al 2001 presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi.

«Guardi, mi rendo conto di deludere curiosità politiche e storiografiche, ma già vent’anni fa, nell’ultima relazione della Commissione, definimmo il quadro. Chiesi che il testo non fosse sottoposto al segreto di Stato. Insomma, andammo molto avanti rispetto a quanto accade oggi. Poi ci sono le sentenze dei Tribunali che ricostruiscono il profilo delle due organizzazioni. C’è già tutto in quelle pagine, non vedo che cos’altro possa venir fuori. Basterebbe leggere, dotarsi di un minimo di inquadramento storico, capire la natura autentica di Gladio e della P2 e individuare chi davvero ha provato ad attentare alle libertà democratiche in questo Paese». 

Pellegrino, allora perché desecretare atti nella sostanza non più segreti? Nella giornata dell’anniversario della strage alla Stazione di Bologna le sembra un gesto dal valore precisamente simbolico, e perciò non meno rilevante?

«Probabilmente sì, Draghi ha voluto cogliere l’occasione. Per altro la procedura di desecretazione è complessa e gli uffici registrano comunque ritardi. Forse anche per questo motivo gli atti della Commissione non sono consultati come si dovrebbe. I processi hanno stabilito che a collocare l’ordigno del 2 agosto 1980 furono Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. In un altro giudizio si sta cercando di arrivare ai mandanti». 

Appunto. Proprio alla vigilia dell’anniversario è stato recuperato un filmato che ritrae il terrorista neofascista Paolo Bellini, riconosciuto dalla moglie e dalla figlia, sui luoghi della strage alla Stazione di Bologna. Documenti inediti rilanciano la responsabilità del capo della P2, Licio Gelli. 

«Occorrerà analizzare con attenzione queste novità che a me paiono ricondurre alla lotta di potere che si svolse all’interno della P2 tra Gelli e Francesco Pazienza. Certo è che tra il 1969 e il 1980, tra le bombe di Piazza Fontana e alla Stazione di Bologna si delineò una strategia della tensione attraverso una sequenza di conflitti pure di natura e implicazioni diversi. E anche per questa ragione occorre procedere sempre tenendo in considerazione lo scenario storico e politico.

Il pericolo eversivo ci fu, assai pesante, ma dovuto soprattutto ad altre forze».

Altre: quindi diverse da Gladio e P2? Secondo lei che cosa hanno rappresentato queste organizzazioni nella storia d’Italia?

«Occorre innanzitutto riferirsi agli anni in cui vennero costituite. La logica che le vide nascere era quella Atlantica, della divisione dell’Europa in due blocchi con l’Italia in una posizione geopolitica assolutamente nevralgica. Gladio è stata un’organizzazione nata in un periodo in cui appariva pressante il rischio di un’invasione delle truppe del Patto di Varsavia e la P2 fu disegnata come un centro d’irradiazione dell’oltranzismo atlantico nel segno delle direttive dell’Alleanza che allora ci guidava. Si è trattato di due prodotti del mondo diviso in due. Punto. Ma entrambe non hanno mai avuto uno spirito eversivo. Loro no». 

Quali altre?

«Quelle della rete neofascista che si intrecciava con l’apparato istituzionale. Ma vogliamo dimenticare le compromissioni che strutture dello Stato avevano con Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, alle loro legioni che operavano con 1500 militanti, all’attività di Franco Freda e Giovanni Ventura con i loro Nuclei per la difesa dello Stato lanciati dopo il famigerato convegno del 1965, a ciò che venne commesso tra il 1969 e il 1973? L’Italia era un Paese schizofrenico, con organizzazioni neofasciste che avevano rapporti ben stretti con i Servizi e gli Uffici affari riservati e una classe politica di governo che giurava fedeltà costituzionale all’Alleanza atlantica».

La sua è una ricostruzione che ricalca quella di Guido Salvini, il magistrato che indagò sull’eversione di estrema destra e sui dintorni della strage di Piazza Fontana.

«Certo. Per me resta un riferimento fondamentale e nel libro che sto scrivendo sui misteri d’Italia sarà centrale. Ricordo che, per quanto rivelato, ha subito 11 addebiti disciplinari da parte del Csm, si è opposto e ne è uscito sempre vincente. Si tratta di verità scomode: sotto il profilo giudiziario ma pure perché definiscono un problema di valutazione politica dei fatti che non piace a nessuno».

Perché?

«Perché recuperare la visione storica significa porre tutti di fronte alle rispettive responsabilità. Ancora oggi difficili da assumere. Per la Dc, che deve accettare le sue come forza di governo. Per il Pci, il mio partito, che era obbligato dalla sua collocazione politica a fare i conti con la fedeltà ai principi della Costituzione democratica e, insieme, con il legame con Mosca. Erano partiti a loro volta divisi. Partiti schizofrenici all’interno della schizofrenia italiana».

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