I giovani dagli anni '80 in poi: se lo stile significa rivolta

I giovani dagli anni '80 in poi: se lo stile significa rivolta
di Claudia PRESICCE
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Giovedì 20 Maggio 2021, 05:00

“I love you, fuck you”: il meeting aveva questo nome, ma come sottotitolo declamava “Bande giovanili? No, grazie”. La tesi era che parlare delle cosiddette “bande giovanili” riferisse “una proiezione mediatica, una nuova forma di etichettamento da apporre a fenomeni e soggetti che i media non capivano”. In pratica la storia di sempre: i fenomeni giovanili erano ignorati e incompresi dagli adulti.
È questo un racconto che vola indietro fino agli anni Ottanta, quando al Mattatoio di Testaccio a Roma nel settembre del 1983, in un clima “elettrico” durante quello che tutti chiamavano “il meeting delle bande” tra ragazzi dell’Arci arrivati da mezza Italia (ma anche d’oltralpe), musica e birra, tribù varie un po’ punk, un po’ rockabilly o skinhead e altro, teatro ispirato a brani di “Arancia meccanica” e una conferenza sulle culture giovanili, si aggiravano i giovani autori di un libro studio sul fenomeno giovanile delle gang dal titolo “La rivolta dello stile. Tendenze e segnali dalle subculture giovanili del pianeta Terra”. Oggi uno degli autori di quel libro, anche tra gli organizzatori di quell’evento romano (e di altri in cui confluirono alcuni tra i protagonisti principali di quella animata stagione culturale e delle successive), ha riportato in libreria quelle pagine di allora, vivaci quanto rigorose e ruspanti, con un approfondimento analitico composto da protagonisti dell’epoca (tra cui il sociologo Alberto Abbruzzese che introduce) che offrono una fotografia degli studi socio-antropologici di quegli anni sulle tendenze giovanili novecentesche a livello internazionale.


Si tratta di Stefano Cristante, docente di sociologia della comunicazione di Unisalento, che nelle prime pagine di “La rivolta dello stile. Tendenze e segnali dalle subculture giovanili del pianeta Terra” firmato con Angelo Di Cerbo e Giulio Spinucci, aggiunge una nuova introduzione in cui ripercorre una storia generazionale, raccontando il fermento di quegli anni (Mattatoio romano ma anche molto altro) intorno a cui nacque questa pubblicazione. E poi affida ai capitoli di ieri, curati da diversi giovani studiosi del tempo, l’idea sociologica di quei fenomeni e di quel mondo semisconosciuto alla narrazione ufficiale di quel tempo (anche giornalistica), per rintracciare oggi nella percezione di allora gli echi di alcuni riferimenti culturali che ancora rimbalzano tra noi.
«Per definire le bande giovanili all’epoca della scrittura del libro, cioè nei primi anni Ottanta – spiega Cristante – dobbiamo usare il concetto di subcultura, anche se l’espressione non restituisce l’idea di una vera e propria connotazione culturale distinta. In realtà in quegli anni si assistette ad un breve ritorno in auge delle subculture giovanili cosiddette di banda o gangs dei decenni precedenti. E in particolare un trascinamento della più importante cultura giovanile dell’ultimo periodo degli anni Settanta, cioè il punk, riaprì in qualche modo la strada a classiche subculture legate a canoni soprattutto estetici».
Diverse erano le vocazioni giovanili riattivate nel nuovo decennio, anche con un’aura nuova. «C’era per esempio quella skinhead legata ad abbigliamenti riferibili alla classe operaia ma con forte presenza di materiali ideologici di Destra, anche estrema – prosegue Cristante – come pure tornò la cultura mod che si rifaceva a stili musicali inglesi rielaborati con le nuove tecnologie tipo Style Council. E tornarono anche i rockabilly, però rivisti dal lato giocoso di travestimenti riferibili agli anni Cinquanta. E così tanti altri. La definizione di banda giovanile può essere ricondotta all’idea di un piccolo gruppo dai comportamenti comuni, che oggi diremmo virali, che si riproduceva come una sorta di franchising caratterizzante. Era un fenomeno molto esteso? No, ma composto da chiassose minoranze perché con le lambrette iper-accessoriate dei mods, o con gli abiti carichi di simboli dei punk o con gli atteggiamenti machisti della subcultura skinhead, quei gruppi erano pochi, ma si facevano notare molto».
Parlarne oggi, in un presente così diverso, dove una cultura più individualista e la virtualità lasciano poco spazio ad idee di collettività e di aggregazione in gruppi consolidati e culturalmente motivati, sembra di maneggiare reperti preistorici.

E viene da chiedersi che cosa resta di quei venti giovanili di quegli anni. «Oltre ai ricordi di quel tempo, resta oggi la nostalgia di un tempo in cui i giovani avevano un’identità più connotata – prosegue Cristante – al di là della, a mio avviso fragile, subcultura trap derivata da un grande fenomeno culturale afro americano che è stato il rap. Oggi credo che abbia molto senso riparlare delle bande giovanili perché è un discorso che può andare ad innestarsi nelle problematiche relative alla mancata normale socializzazione giovanile legata alla lunga pandemia e all’isolamento sociale».


«L’epoca giovanile è il momento in cui le culture divengono un prodotto collettivo, lo scambio socievole determina cultura e identità giovanile, quindi nel momento in cui gli schermi di pc e smartphone sono stati dominanti ed egemoni, la mia sensazione è che da qualche parte cercherà sfogo la rabbia per la mancata socializzazione di questi due anni. Ci saranno minoranze giovanili che capiranno l’importanza di ricaricare di significati l’essere giovani, anche partendo dal gigantesco fenomeno della precarietà e dell’assenza di lavoro. E poi temo - conclude Cristante - che ci saranno anche minoranze di giovani sbandati, del tipo raccontato in Arancia Meccanica, che per definizione detestano adulti e anziani non tollerandoli come una sorta di zavorra sociale. Riguardo a queste possibili manifestazioni, credo che le Scienze sociali e le Istituzioni debbano correre ai ripari preventivamente, concependo il periodo post-pandemico come tempo di cambiamenti e responsabilizzazione dei giovani, da valorizzare come portatori di maggiori competenze in alcuni campi e da aiutare per il maggiore dolore provato rispetto all’isolamento sociale. In caso contrario la rabbia potrebbe sfociare in episodi sgradevoli che vanno dall’incomprensione generazionale alla vera e propria violenza».

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