Società e politica tra Storia e storie

Società e politica tra Storia e storie
di Claudio SCAMARDELLA
9 Minuti di Lettura
Domenica 13 Giugno 2021, 05:00

È in uscita il nuovo libro di Giacinto Urso, 96 anni, che è stato deputato della Dc per cinque legislature, presidente della Commissione parlamentare di Sanità, Sottosegretario alla Pubblica istruzione nei governi Moro, presidente della Provincia di Lecce. Il titolo è: “Storia e storie. Riflessioni su politica e società”
(Capone editore, pagg.757). È la raccolta degli articoli scritti, tra il 2006 e il 2015, per la rubrica domenicale “Periscopio” su questo giornale. Pubblichiamo di seguito l’introduzione di Claudio Scamardella, direttore del Quotidiano.

  

 
Ogni anno, alla fine dell’estate, dopo il meritato riposo nel buen retiro della “sua” Nociglia, c’è una piccola battaglia da combattere con Giacinto Urso: convincerlo a riprendere la pubblicazione della rubrica domenicale su Quotidiano. Di anno in anno, le sue resistenze sono sempre più forti. Motivi soggettivi, innanzitutto: mi stanco troppo, ho paura di perdere la lucidità, temo di ripetere le stesse cose. E poi oggettivi: trovo sempre più difficile capire la realtà, non mi ci raccapezzo più a interpretare i comportamenti della società e quelli della politica. Ma le nostre resistenze sono altrettanto forti. Insistiamo per giorni con lunghe telefonate e finora, per fortuna, abbiamo sempre vinto questa piccola battaglia d’autunno. 

La rubrica

Per fortuna. Dei lettori, in primo luogo, che seguono con grande attenzione “Periscopio”. Ma anche per nostra fortuna. Confesso che è un privilegio leggere e titolare ogni sabato pomeriggio, in anteprima, le riflessioni di Giacinto Urso. Un privilegio al quale, da quando lavoro al Quotidiano, non ho mai voluto rinunciare. Sarà, forse, per il mai sopito interesse - nonostante le grandi delusioni e le dure repliche della storia - verso la politica e, più in generale, il governo della cosa pubblica, oggetti privilegiati delle analisi compiute dalla lucida e raffinata intelligenza di Urso. E sarà sicuramente per il rispetto e il riconoscimento che fin da giovane nutro verso quelle figure che nelle antiche civiltà erano i “saggi”, capaci di leggere e interpretare la realtà dall’alto dei propri studi e della propria esperienza di vita vissuta. Di indicare i pericoli e di consigliare le scelte giuste. Di raccontare gli errori del passato e di scorgere le opportunità del futuro. “Saggi”, ma non solo. Anche “autorità morali”, distaccate ormai dai giochi di potere e dalle cose inquinate della vita, alle quali rivolgersi per saperne di più, per capire e magari anticipare la direzione del tempo. Chi nel Salento non vuole arrendersi alla civiltà “liquida”, tutta appiattita sul frettoloso consumo del presente, chi continua a porsi interrogativi e cerca risposte, non può non avere come solido punto di riferimento Giacinto Urso.

Un saggio, un’autorità morale che possiede una duplice dote. La politica, Urso, l’ha vissuta in prima persona, e l’ha vissuta negli anni più nobili che questa arte (sì, un’arte!) ha conosciuto nella storia recente dell’Italia, incontrando e interagendo con personalità, leader e statisti che si stagliano ancora di più nella loro grandezza e appaiono giganti se paragonati ai politici di oggi. Ma della politica, Urso, è anche un fine intenditore, nel senso che la capisce. Non sembri, questa, un’affermazione stravagante e paradossale, perché non sempre le due cose coincidono. Anzi, spesso chi ha più spiccata una delle due doti (saper fare la politica), mostra di difettare dell’altra (capire la politica). Capire la politica, saperla interpretare, riuscire ad anticipare i corsi e le direzioni che imboccherà, vuol dire possedere una non comune capacità d’analisi, significa avere uno sguardo molto più ampio e prospettico rispetto agli angusti orizzonti in cui si muove la politica politicante, la politica fondata solo sulla ricerca di voti e preferenze. In una sola parola, significa essere colti, non solo istruiti o informati e, peggio ancora, spregiudicati organizzatori di macchine da consenso elettorale. Provate a leggere, contestualizzando il periodo, gli articoli domenicali di “Periscopio”: in moltissimi casi, le riflessioni di Urso anticipano ciò che poi realmente si avvera o si invera in processi storici di lungo periodo. E questa è una dote rara anche tra i politologi contemporanei, non solo italiani. 

Un brillante professore come Giovanni Sartori, fondatore della scienza politica italiana, insegnava fin dalla prima lezione ai propri allievi una distinzione netta, da tenere sempre a mente nel corso degli studi successivi: le scienze sociali e le ricerche sociali sono tali e hanno una loro ragion d’essere solo se sono “predittive” e non “descrittive”. Nel momento in cui risultano “descrittive”, se si limitano cioè a fotografare l’esistente, diventano del tutto inutili perché per questo compito o c’è la cronaca (del presente) o c’è la storia (nel futuro). Oggi leggiamo spesso editoriali, anche sui giornali di larga diffusione e prestigio, o libri di politologi e sociologi appiattiti sulla descrizione dell’esistente e sulla denuncia del presente. Solo in rari casi, alla fine della lettura di un editoriale o di un libro ci sentiamo più ricchi e con un orizzonte più lungo rispetto all’inizio della lettura. Ecco, la bravura di Urso, che decreta il successo della rubrica tra i lettori, sta nella capacità di interpretare con grande lucidità il presente e prefigurare il futuro.

Lo sguardo al futuro

Uomo d’altri tempi, eppure non prigioniero della sua epoca. Si dice che il tempo di chi ha raggiunto una certa età sia il passato perché i ricordi diventano più forti delle speranze. Forse è vero, ma non per Giacinto Urso. Il suo tempo non è mai stato solo il passato e la sua vita - per parafrasare il “De Senectute” di Bobbio - non è mai diventata una vita al rallentatore, nemmeno a 96 anni, perché sono rimaste lontanissime da lui sia la lentezza ieratica del sacerdote in processione, sia l’ostentazione giovanilistica che “suscita più compatimento che compassione”. Pur restando un uomo del profondo Novecento, figlio delle speranze e anche delle tragedie dell’ultimo scorcio di millennio, con le sue insopprimibili passioni e le sue catastrofiche delusioni, con le sue irrisolte contraddizioni, ha sempre continuato a proiettare lo sguardo verso il futuro invece che al passato, conservando il gusto della sfida anche a un’età in cui, naturalmente, si è portati a vivere più di ricordi e nostalgie. Solo chi considera il proprio tempo il presente e il futuro, del resto, trova ancora la forza e la voglia di scendere direttamente in campo, anche a 96 anni, per le grandi battaglie in difesa degli interessi e dei diritti del territorio. Sta in questo tratto di modernità, contrapposto al modernismo, il suo segreto di essere stimato e ascoltato da tutti, anche dagli avversari politici di un tempo. E da chi la pensa in modo diverso. Su Berlusconi come su Renzi, su Fitto come su Vendola o Emiliano.

Uomo d’altri tempi e, perciò, anche uomo di parte. Ma nel senso giusto, nel senso di prendere posizione e schierarsi, senza tuttavia mai iscriversi a una fazione e senza mai diventare tifoso irriducibile. Nelle riflessioni domenicali di Urso, raccolte in questo libro, come nelle lunghe conversazioni telefoniche, emergono in modo evidente i tratti distintivi della sua cultura politica, che affonda le radici nella grande tradizione e nella straordinaria scuola del cattolicesimo democratico.

Tre su tutti. 

Tre riflessioni

Il primo: l’assoluto e deferente rispetto delle regole e per le regole, come solo un interprete rigoroso di un codice morale antico può avere. Delle regole, è noto, il faro più luminoso è la Costituzione. Urso, come gran parte degli uomini della sua generazione, ha sempre vissuto con fastidio quei presunti innovatori che brandiscono l’arma del cambiamento non come un progetto organico e complessivo per modernizzare le istituzioni e la Carta, ma come un piccone propagandistico. Perché il piccone serve a demolire più che a costruire, in questo caso a demolire un’architettura dello Stato che, è sempre bene ricordarlo, ha garantito all’Italia di diventare una delle democrazie più avanzate del mondo. Non si tratta, dunque, di reducismo. Né di conservatorismo intellettuale, ma della giusta convinzione che il cambiamento senza cultura istituzionale e senza rigore giuridico, incentrato su modifiche parziali e del tutto scollegate tra loro, produce solo guai e riforme pasticciate. La storia italiana degli ultimi anni, con l’inseguimento del mito della semplificazione a tutti i costi, gli stanno dando, in parte, ragione. 

Il secondo: una democrazia senza partiti e con i corpi intermedi largamente depotenziati, per non dire demonizzati, è una democrazia a forte rischio, così come decisamente pericolosa è la tendenza a risolvere il tema della governabilità attraverso una torsione del sistema sul versante dell’esecutivo, a tutto svantaggio della partecipazione diffusa e della stessa sovranità popolare. Un sistema democratico che tende a rafforzare solo la “decisionalità” e la leadership solitaria, prosciugando la partecipazione, non ha davanti a sé un grande futuro. Urso teme, a ragione, quella che i politologi chiamano “democrazia del pubblico”, dove c’è un leader sempre più solo al comando che comunica - attraverso piazze virtuali - in modo unidirezionale, dall’alto verso il basso, a meno che non si scambi per interazione e partecipazione la falsa “orizzontalità” della rete. Anche in questo caso, però, i suoi occhi non sono rivolti al passato, alla nostalgica contemplazione dei tempi in cui c’erano i grandi partiti di massa come canali di organizzazione della politica, oltre che come selezionatori severi delle classi dirigenti. Pur consapevole che i grandi partiti di massa non torneranno più, Urso è giustamente convinto che non può esistere una democrazia non imperniata sui partiti, almeno fino a quando non sarà sperimentata un’alternativa credibile e visibile. Si potranno e si dovranno cambiare le forme e gli strumenti di organizzazione della democrazia, ma il popolo non può e non deve diventare semplicemente un pubblico. 

Il terzo: la centralità dei territori e delle periferie nella determinazione della politica nazionale, senza tuttavia perdere di vista lo storico obiettivo degli Stati Uniti d’Europa, grande idea forza della sua generazione, che ha conosciuto la seconda guerra mondiale e che ha vissuto sulla propria pelle le tragedie e le macerie prodotte dai nazionalismi europei. La febbre dei populismi e dei nuovi nazionalismi può diventare mortale per la democrazia europea, al pari di un’Europa stretta nella morsa asfittica delle banche e dei burocrati, dei parametri e dei pareggi di bilanci. L’una e l’altra si tengono e c’è una sola strada per uscirne: rifondare l’idea stessa di Europa e della sua unità, cedendo parti anche consistenti di sovranità degli Stati nazionali, ma rafforzando al tempo stesso la sovranità popolare anche con l’elettività di gran parte degli organismi sovranazionali. 

Non si tratta di essere d’accordo o meno. Si tratta di leggere e di riflettere. Per capire in che tempi viviamo, per scorgere i pericoli davanti al nostro cammino, per trovare insieme una rotta che ci porti fuori dalla “crisi cognitiva” in cui siamo piombati negli ultimi decenni. Per porsi domande e cercare risposte. E qui torna la figura del “saggio”, dell’autorità morale. Che, speriamo, non si stanchi di scrivere e continui a essere in campo, a schierarsi, a combattere. Ne abbiamo bisogno noi di Quotidiano. Ne ha bisogno la nostra classe dirigente. Ne ha bisogno l’intero Salento.

© RIPRODUZIONE RISERVATA