Così la filosofia rifonda le basi della nostra identità culturale

Così la filosofia rifonda le basi della nostra identità culturale
di Francesco FISTETTI
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Domenica 19 Gennaio 2020, 19:30
In tempi di rinascita, in tutta Europa, di nazionalismi identitari, intrisi di pulsioni illiberali e di tentazioni populistiche, si sono riaffacciati nella sfera pubblica, sotto nuove forme, interrogativi che pensavamo già risolti o, almeno, consegnati all'esclusiva ricerca degli storici. Che cos'è una nazione? Che cos'è la sovranità nazionale? Qual è l'identità di un popolo? La congiuntura politica attuale, caratterizzata dalla presenza attiva di forze e movimenti cosiddetti sovranisti, ci ha bruscamente ricordato che la nazionalizzazione delle masse, un fenomeno che va insieme con la nascita e lo sviluppo dei moderni Stati nazionali, non sempre segue i percorsi di democratizzazione della vita pubblica. Ancora meno in Italia, ove abbiamo conosciuto il fascismo, che a suo modo ha rappresentato il tentativo di fare delle masse popolari la base di uno Stato totalitario.

Ora, la pubblicazione, nell'arco di quest'anno, di tre libri dedicati alla filosofia italiana ha riproposto il problema delle matrici culturali della nostra identità nazionale e della funzione che la filosofia ha svolto, a partire dall'unità d'Italia, nel processo di formazione dell'autocoscienza storica del nostro Paese. Sul primo di essi, La filosofia italiana del Novecento. Autori e metodi, curato da Gaspare Polizzi (per le Edizioni ETS di Pisa), concentreremo maggiormente l'attenzione, perché si propone esplicitamente di rispondere alla domanda circa lo stato di salute della filosofia italiana oggi (suona così il titolo del saggio di Carlo Gabbani ivi contenuto) e, al contempo, affronta correnti e autori (Croce, Gentile, Gramsci, Bobbio, Luporini), a dir poco, centrali nella vicenda, tipica del secolo scorso, riguardante il rapporto tra intellettuali e Stato democratico.

Gli altri due testi offrono materiali importanti alla rivisitazione dell'identità della cultura italiana, di cui la filosofia, comunque la si intenda, è parte integrante. L'uno è un volume in onore di Alfonso Maurizio Iacono, filosofo e preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Pisa dal 2003 al 2012 (ETS di Pisa). Esso raccoglie un numero considerevole di studi di filosofi italiani (storici della filosofia, teoretici, filosofi morali, filosofi del diritto, antropologi, storici delle dottrine politiche, studiosi di estetica, di storia del teatro, ecc.). In questo senso, ci dà l'opportunità di compiere una ricognizione apprezzabile, sebbene non esaustiva, di che cosa fanno o di che cosa si occupano i filosofi italiani nel nuovo secolo.

Il terzo libro è dedicato a Giuseppe Tarantino, un filosofo pugliese, di Gravina (1857-1950), che, per quanto o proprio perché semisconosciuto e assente dai manuali scolastici, ci dà la possibilità di sondare i lati oscuri del modo in cui si è venuta strutturando la nostra identità culturale. Lo ha scritto, consultando anche i numerosi inediti, un suo pronipote, Filippo Tarantino, L'umanesimo scientifico di Giuseppe Tarantino, edito nella collana del seminario di Storia della Scienza dell'Università di Bari e con una prefazione di Ferruccio De Natale (Edizioni Aracne).

La figura di Giuseppe Tarantino appare marginale solo se la si consideri alla luce del canone storiografico che in Italia è divenuto egemone nel secondo dopoguerra. Nel nostro caso, il canone storiografico incaricato di stabilire ciò che nella storia della filosofia italiana è centrale e ciò che è secondario se non irrilevante è stato costruito da Eugenio Garin nelle sue Cronache di filosofia italiana 1900-1943 (Laterza 1955, prima edizione), a cui era seguìto l'aggiornamento con il saggio del 1962 Quindici anni dopo (1945-1960). Senza poter qui entrare nel merito della ricostruzione di Garin, basterà dire che egli fissava un'identità ben precisa della cultura nazionale ancorandola a una lignée (o linea genealogica) altrettanto ben precisa, segnata dalla storicità crociana e dall'umanismo gentiliano, naturalmente profondamente depurati delle loro scorie mistiche e teologizzanti. È questa, come è noto, la lignée dello storicismo italiano che dall'hegelismo napoletano di Spaventa (e prima ancora da Vico) e da De Sanctis attraverso Labriola, Croce e Gentile giungeva fino a Gramsci. Come ha osservato Massimo Ferrari in Mezzo secolo di filosofia italiana. Dal secondo dopoguerra al nuovo millennio (il Mulino, 2016), essa fu consacrata dal segretario del PCI Palmiro Togliatti, il quale promosse la prima edizione dei Quaderni del carcere di Gramsci in funzione di una politica culturale tesa ad accreditare nel marxismo «tradotto in italiano», cioè nella gramsciana «filosofia della prassi», l'esito più radicale di questa tradizione nazionale. Proprio Tarantino, divenuto professore di filosofia morale presso l'università di Pisa e preside di Facoltà, dove diresse dal 1906 al 1923 la Scuola di Pedagogia, aveva chiamato Gentile a Pisa a ricoprire la cattedra di filosofia teoretica, e del quale diventò amico. Ma Gentile non tardò a squalificarlo come filosofo minore o addirittura non-filosofo, quando in Le origini della filosofia contemporanea in Italia ebbe ad affermare con tono tagliente che Giuseppe Tarantino non affrontava le grosse questioni di gnoseologia e di Metafisica.

Ora, al di là della levatura di Tarantino come filosofo, ciò che importa rilevare è che egli dialoga con correnti e orientamenti della cultura europea, a lui coevi, che comprendono i nomi di Bergson, W.James, Spencer. Inoltre, oggetto del suo interesse sono le scienze psicologiche e psicopatologiche del suo tempo, che si avviano a studiare secondo un'impostazione sperimentale i meccanismi di funzionamento della mente e le basi fisiologiche della conoscenza. Anche a questo proposito basterà richiamare i nomi di Müller, Helmholtz, Wundt, Fechner per comprendere quanto le ricerche di Tarantino fossero consonanti con la cultura filosofica europea, in cui le scienze storico-sociali e le scienze della natura o scienze sperimentali si contendevano il terreno in una disputa filosofica rivolta a imporre il primato delle une sulle altre. Il fatto è che in Italia non incontrò mai successo né forse poteva mai averlo la lignée delle scienze sperimentali che si affermò nel resto d'Europa. Eppure, in Italia, anche se minoritaria, era sempre stata operante una tradizione intellettuale legata allo sviluppo delle scienze sperimentali, della logica e delle matematiche, che risale all'economista Melchiorre Gioia (1767-1729) e al filosofo, giurista ed economista Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e, passando per Cattaneo, arriva a Peano, Vailati, Calderoni ed Enriques. Questa tradizione proseguirà nel secondo dopoguerra in forme rinnovate nella filosofia della scienza di Geymonat, nel neo-illuminismo di Abbagnano e dello stesso giovane Bobbio. Sulla sua rilevanza e fecondità non solo scientifica, ma anche etico-politica il volume dello storico della filosofia salentino Antonio Quarta, Filosofi italiani del Novecento e cultura europea (Pensa Multimedia 2016) colma una lacuna ed è tuttora un punto di riferimento importante.

Queste due tradizioni intellettuali della cultura nazionale lo storicismo di Croce/Gentile/Gramsci e quella incentrata sullo sviluppo della razionalità scientifica, a sua volta non priva di finalità di rinnovamento civile sono state fino a tempi recenti contrapposte l'una all'altra. Ma forse è arrivato il momento in cui occorre riconoscere che esse sono i due filoni aurei della cultura nazionale e fanno della filosofia italiana un pensiero vivente, per utilizzare il titolo del libro di qualche anno fa di Roberto Esposito, il cui sottotitolo suona Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi 2010). Tuttavia, la lettura di Esposito appare parziale, perché amputa dal tronco vitale della filosofia italiana la tradizione che fu di Peano, Vailati e Enriques e che è giunta fino a Geymonat. Peraltro, questa tradizione nel secondo dopoguerra ha trovato una prosecuzione originale in autori come Giulio Preti e, all'interno del marxismo italiano, in esponenti come Cesare Luporini, il quale, in sintonia con Louis Althusser, proponeva un'interpretazione del materialismo storico in chiave di scienza delle formazioni economico-sociali.

Sotto questo profilo, illustra molto bene questa falda scientifica interna al marxismo italiano Sergio Filippo Pogliani nel saggio Tra Sartre e Althusser. La svolta anti-storicistica di Cesare Luporini, contenuto nel volume curato da Polizzi. Proprio la vicenda di Luporini, che inserisce il marxismo nella storia delle scienze, mostra quanto feconda sia la tradizione intellettuale di Vailati e Enriques o, come dicevamo, di Gioia e Romagnosi. Per questa ragione, la filosofia analitica anglosassone o angloamericana, che negli ultimi decenni è andata via via affermandosi anche da noi, appare del tutto estranea alle nostre matrici culturali, distante, com'è, dall'inquadramento storico dei problemi. Quanto a R. Esposito, la sua interpretazione dell'identità culturale italiana, tutto sommato, ricalca ancora l'approccio di Garin, il quale aveva insistito a più riprese sul ruolo svolto da Croce e Gentile nel promuovere il rinnovamento della cultura italiana ponendo al centro della riflessione filosofica il nodo dell'agire umano nella storia. Quest'ultima considerazione ci dà modo di introdurre il discorso sull'Italian Thought o Italian Theory, che è la denominazione con cui il pensiero di un certo numero di autori, in particolare A. Negri, G. Agamben e lo stesso R. Esposito, oggi è conosciuto all'estero. Nel tracciare un primo bilancio dell'Italian Thought, Elena Pulcini, nel volume curato da Polizzi, ne sottolinea il merito consistente nell'aver raccolto la sfida di esplorare la complessità del nostro presente globale e nel mantenere vigile l'attenzione su quello che da Machiavelli a Croce, a Gentile e a Gramsci è il concetto di vita, senza cadere nella dissoluzione del soggetto esaltata dai postmodernisti. Ma a giusta ragione Elena Pulcini osserva che dagli interessi e dagli obiettivi dell'Italian Theory resta tagliata fuori la necessità di una prospettiva etica, intendendo con questa espressione tutto il mondo delle passioni (fredde e calde, distruttive e nobili) che caratterizzano il soggetto moderno e lo spingono a creare o rompere il legame sociale, a entrare in empatia o in ostilità con l'altro.

Molto più severo nei confronti di questa corrente di pensiero è, invece, Pier Paolo Portinaro in un denso volumetto, Le mani su Machiavelli. Una critica dell'«Italian Theory», pubblicato da Donzelli nel 2018. Portinaro parla di una costruzione barocca cresciuta a ridosso dell'operaismo italiano denunciando il vezzo di quella che è diventata una sorta di neolingua di una certa filosofia italiana, la neolingua della biopolitica, peraltro debitrice del pensiero francese, in particolare di Michel Foucault.

Infine, poche parole per segnalare che una pratica della filosofia che si confronti costantemente con le scienze umane ha cominciato a farsi strada nel nostro Paese almeno a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Ne è testimonianza proprio il volume sopra richiamato, L'esercizio della meraviglia, in onore di Alfonso M. Iacono. Nello scritto autobiografico ripubblicato nella Premessa, Iacono rivendica con forza questo modo di praticare la filosofia e la storia della filosofia. Non ho mai pensato che la storia della filosofia dovesse identificarsi con la storia dei filosofi. Al contrario, credo che sia connaturato alla filosofia e alla sua storia il doversi, per così dire, contaminare. I saggi contenuti nel volume e che non possono essere per ragioni di spazio qui discussi - appartengono ad autori giovani e meno giovani e mostrano in concreto, oltre ad una grande ricchezza di temi, un comune denominatore. Esso sta in un modo di intendere e di fare filosofia che, più o meno intenzionalmente, si pone come erede della complessa tradizione italiana, ma al contempo si apre all'enciclopedia dei saperi filosofici e scientifici contemporanei senza alcuna subalternità. Una nuova consapevolezza dell'identità culturale italiana passa sicuramente anche attraverso questo transito che è il lavoro filosofico.


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