Dal lockdown alla cultura dimenticata, parla Eugenio Barba: «Esiste una tradizione dell'impossibile, il teatro si risolleverà»

Dal lockdown alla cultura dimenticata, parla Eugenio Barba: «Esiste una tradizione dell'impossibile, il teatro si risolleverà»
di Ilaria MARINACI
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Lunedì 26 Ottobre 2020, 09:49 - Ultimo aggiornamento: 11:48

«Ritornare in Puglia è come fare un viaggio nel grembo di mia madre. È bello ma doloroso. Quando vedo le campagne devastate dalla Xylella, penso che questa terra sia dannata. Com’è possibile che i politici abbiano permesso tutto questo?». Eugenio Barba ha una chioma bianca che risalta sul viso abbronzato. Ama stare al sole, abitudine che tradisce le sue origini gallipoline. È nato in riva allo Jonio, ma lontano da qui è diventato uno dei più grandi innovatori del teatro contemporaneo, fondando nel 1964, in un rifugio antiaereo di Oslo, in Norvegia, il celebre Odin Teatret, che oggi ha sede a Hostelbro, piccolo paesino della Danimarca. Stasera, ai Cantieri Koreja di Lecce, alle 19.30, in diretta streaming sui canali social del teatro leccese, presenta il documentario “The art of impossible” sulla storia sua e dell’Odin, preceduto da un incontro con il sindaco di Lecce Carlo Salvemini. Nel prossimo fine settimana, erano in programma anche due repliche del suo ultimo spettacolo, “La casa del sordo”, dedicato a Francisco Goya, saltate a causa del nuovo Dpcm che ieri ha chiuso cinema e teatri. Con la compagnia salentina diretta da Salvatore Tramacere, però, ha un legame quasi familiare: si può dire che Koreja abbia cominciato a nascere durante l’esperienza dell’Odin a Carpignano Salentino nel 1974.

Maestro, è corretto dire che l’Odin è il padre e Koreja il figlio?

«Sono d’accordo che esista una filiazione: in teatro noi tutti cerchiamo di diventare quello che ammiriamo. L’ammirazione è una forma di amore. Io stesso sono la conseguenza dei miei grandi amori, consapevoli e inconsapevoli. È uno degli aspetti più commoventi della professione teatrale, fatta di cinismo, superficialità, compromesso».

Come nasce il documentario “The art of impossibile”?

«Nasce dallo sguardo di una filmaker, Elsa Kvamme, che ha lavorato con noi ed è stata anche a Carpignano. È riuscita a scovare una quantità di materiale delle nostre origini che nessuno conosceva, ricostruendo passo per passo gli anni oscuri della leggenda dell’Odin, piccolo gruppo di persone rifiutate alla scuola teatrale che danno vita a una compagnia: come vivevamo, come eravamo organizzati, come ci muovevamo, come ci siamo fatti conoscere. Un racconto che arriva fino ai nostri giorni».

Il teatro dell’Odin è sempre stato fisico, carnale: voi in strada col pubblico e il pubblico in scena con voi.

«Una modalità nata perché non avevamo un teatro all’inizio e dovevamo accontentarci di locali di fortuna (magazzini, aule, palestre, chiese).

Saper sfruttare quelli che sembrano dei limiti nella scoperta di nuove possibilità è stato il tirocinio dell’Odin, che ci ha permesso di creare un sistema di produzione in cui il teatro è una comunità. Può sembrare una forma di originalità, è stata la soluzione di poveri che non avevano un loro spazio. Un po’ come la cucina mediterranea che nasce povera ma è una delle più saporite».

Anche in questo tempo di pandemia così difficile per gli artisti lei vede un’opportunità?

«Dipende dalle persone: per alcuni i limiti sono una sfida a trovare nuove soluzioni, per altri sono catene mentali e fisiche che li costringono a star fermi. Esiste una tradizione dell’impossibile che gli individui, anche in condizioni svantaggiate, riescono a far fiorire».

In una lettera indirizzata a marzo, in pieno lockdown, a tutti gli “odini” nostalgici del futuro, ha ribadito che il teatro troverà sempre la sua strada. Lo pensa ancora?

«Ne sono sicurissimo. Del teatro si deve parlare al plurale perché il teatro sono le persone che hanno scelto di dedicarsi a questa professione, ognuno a suo modo. In questa immensa ricchezza e varietà, la vera creatività non consiste nel superare i limiti ma, dentro i limiti, saper andare in profondità e scavare nuovi spazi che prima non esistevano. È quello che, in fondo, hanno fatto i grandi esempi del XX secolo, penso al Living Theatre o a Grotowski, influenzando la grande mutazione ed esplosione del modello teatrale negli anni Settanta».

Nei giorni scorsi, ha lanciato un appello alle istituzioni pugliesi perché i talenti non debbano andarsene via, come avete fatto lei e Carmelo Bene.

«Mi rivolgo a chi oggi ha in mano le decisioni politiche ed economiche che aprono il cammino al futuro: fate attenzione al capitale umano che avete. Se non proteggete, aiutate, vi prendete cura e permettete anche di sbagliare a queste giovani generazioni, voi che siete come i giardinieri, non vedrete mai fiorire il vostro giardino. A Hostelbro, sindaci e giunte di segno opposto hanno sempre tenuto conto del valore incommensurabile della cultura».

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