Eugenio Barba: «La rivoluzione non è ancora finita»

Eugenio Barba: «La rivoluzione non è ancora finita»
di Claudia PRESICCE
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Lunedì 22 Settembre 2014, 20:18 - Ultimo aggiornamento: 20:27
Ci sono racconti che non si spezzano. La storia di Eugenio Barba, partito dal Salento per andare a rivoluzionare il teatro nel mondo, è in questi giorni un racconto che ha il sapore di un ritorno a casa.

Gallipoli e Lecce sono i luoghi della sua infanzia, Holstebro in Danimarca è il luogo del suo presente da ormai mezzo secolo. Ma è qui da noi che, il Maestro che ha inventato l’alternativa del teatro contemporaneo, sta festeggiando i cinquanta anni del suo Odin Teatret, rispolverando nel Salento la giusta contezza del valore di un suo grande esule. Chi studia o ama il teatro è partito da tutto il territorio per guardare da vicino gli attori della sua incontenibile compagnia, ascoltare la musica del loro linguaggio corporeo, respirare l’aura da mito che circonda l’Odin.



Ma, se la “transizione” è il più ricercato senso del suo teatro, la continuità con la sua comunità è quella che oggi l’allievo-amico di Grotowsky viene a cercare qui, con tutta la sua capacità di portare voglia di rivoluzione in un Salento che trova molto cambiato, ma legato alla macerazione culturale e politica tutta italiana. Non a caso sogna dei nuovi Robespierre che sovvertano l’ordine delle cose, in tutto un continente intero in cui la cultura è depositata ai margini più negletti della società e in un Paese in cui il trattamento riservato agli artisti “rasenta l’ignominia”.



Maestro cominciamo dal suo ritorno a Lecce. Che cosa significa per lei venire a festeggiare nel Salento i 50 anni dell’Odin? E perché anche qui?

«Mi impressiona sempre incontrare persone interessate alle attività e agli spettacoli dell’Odin Teatret, un gruppo teatrale che arriva dalla lontana Danimarca. È vero che legami decennali uniscono l’Odin Teatret al Salento. Penso ai mesi che abbiamo trascorso a Carpignano nel 1974 e le innumerevoli volte che siamo stati ospiti del Teatro Koreja a Lecce. Il cinquantenario del nostro teatro ribadisce questa continuità di collaborazione e mutuo stimolo».



Com’è questa terra di Puglia vista da lontano? In che cosa le sembra cambiata in meglio e in che cosa in peggio?

«Ho lasciato il Salento più di sessant’anni fa. Allora questa terra era Sud, cioè realtà di miseria e serbatoio di emigranti. Oggi il Salento dà l’impressione di essere profondamente cambiato. È difficile giudicare se in bene o in male. È diverso. Questo ci spiazza, e ognuno di noi sputa fuori i suoi pre-giudizi. Ma i nuovi comportamenti del Salento sono legati anche alla macerazione culturale e politica in cui versa l’intero paese».



Il teatro al tempo della crisi: c’è chi dice che la creatività sia stimolata dalle difficoltà... Lei come vede il panorama teatrale contemporaneo? In Italia e altrove che cosa ancora resiste, che cosa andrebbe scardinato, che cosa stimolato?

«Bisognerebbe scardinare l’intera struttura del potere e stimolare l’avvento di nuovi Saint Just e Robespierre. Dappertutto in Europa la classe politica trascura il valore e l’influenza della cultura e dei processi che innesca nella vita interiore dei cittadini. Le condizioni in cui operano gli artisti di teatro in Italia rasentano l’ignominia e sono inconcepibili altrove. Il loro coraggio mischiato a tenacia è un monumento vivente alla resistenza civile. Basti pensare al Teatro Koreja, così radicato nella sua città e cosi attivo a livello internazionale: dopo decine di anni non ha ricevuto il minimo riconoscimento dai politici di Lecce».



Sono passati 40 anni dai suoi studi a Carpignano Salentino. Che cosa resta di quell’esperienza e che cosa si potrebbe fare oggi in una realtà evidentemente diversa?

«L’attore è un esperto nello stringere relazioni: con un testo, con se stesso, con gli spettatori e la comunità, con la realtà presente o con un passato immaginario. Dopo Carpignano gli attori dell’Odin hanno sviluppato molti modi di usare la loro esperienza per coinvolgere ambienti e individui. Sono diventati degli specialisti nel generare proposte, iniziative e progetti basati sulla reciprocità. Basta venire a Holstebro, nella nostra sede in Danimarca, durante la Festuge, “la settimana di festa” che l’Odin organizza regolarmente. Si potrà constatare le diverse modalità con cui l’Odin attiva e collabora con le risorse umane della nostra cittadina».



Il suo approccio con il pubblico è cambiato nel tempo? Pensa che la gente abbia sete di arte? Quanto oggi il teatro può fare per cambiare gli aspetti negativi della realtà?

«Questa sete di arte esiste ancora oggi ed è una manifestazione del bisogno di dialogare con le domande sul senso della nostra vita, su che valore, visione o obiettivo vale la pena di scommettere le nostre energie. Per un teatro ogni nuova situazione - spettacolo o progetto speciale - presuppone una valutazione diversa. Nel campo artistico è impossibile ripetere meccanicamente procedimenti già sperimentati. Si ricomincia sempre da capo. A decidere gli effetti sono i fattori umani, la capacità di motivare e la perizia di provocare una visione che infiammi l’immaginazione di chi partecipa. Il teatro, “in generale”, non può cambiare la realtà “in generale”. Ma i singoli teatri lo possono fare in scala limitata. Durante mezzo secolo l’Odin ha saputo toccare in profondità un pugno di persone. Ha messo in moto una catena di energie imponderabili di cui gli storici del teatro sanno segnalare le conseguenze. La vera funzione sociale di un teatro è racchiusa in quello che si dirà dopo la loro scomparsa».