Nel cuore degli stadi, storie di sport e ribellione nel libro di Andrea Ferreri

Nel cuore degli stadi, storie di sport e ribellione nel libro di Andrea Ferreri
di Ennio CIOTTA
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Lunedì 8 Marzo 2021, 09:37 - Ultimo aggiornamento: 14:46

Si intitola “Sugli Spalti, in viaggio negli stadi del mondo, storie di sport, popoli e ribelli" l'ultimo libro dello studioso, attivista, editore e agitatore culturale leccese Andrea Ferreri. Un viaggio reale, da vero globetrotter, in venticinque stadi nel mondo, dall'Upton Park di Londra al Maracana di Rio de Janeiro, dall'Ellis Park di Johannesburg, in Africa, all'Azadi Stadium di Teheran, in Iran, fino al Via del Mare di Lecce, per raccontare quanto il calcio giocato funzioni da termometro culturale della società e quanto le dinamiche sociali all'interno dei templi del calcio riflettano il corso della storia. Venticinque storie reali che superano il perimetro del campo per raccontare il contesto storico, sociale ed antropologico al quale appartengono.
Ferreri è un intellettuale militante innamorato del calcio e delle dinamiche dal basso. Con la sua casa editrice BePress ha già pubblicato i volumi: Ultras i ribelli del calcio (2012) e A Sud di Maradona (2015) e al momento è il maggior punto di riferimento in Italia per articoli e narrazioni sullo sport, sottoculture e conflitti sociali.
Ferreri, come ci è entrata la storia negli stadi?
«La storia entra negli stadi nel momento in cui il calcio diventa un fenomeno di massa e questi cominciano a riflettere come uno specchio, il contesto storico, sociale, umano a cui appartengono. Gli stadi sono paragonabili a delle enormi chiese moderne che hanno ospitato e ospitano milioni di persone; e sono testimoni dell'ultimo secolo di storia umana. Luoghi che non ci parlano soltanto di calcio, ma ci raccontano le vittorie e le sconfitte di uomini e donne. In particolare vale per i grandi impianti, dove la storia si è mescolata alle vicende sportive: lotte politiche e dittature, colonizzazioni e rivoluzioni hanno trovato in questi templi moderni il terreno su cui realizzarsi, masse umane su cui fare breccia o che, al contrario, vi si sono opposte. La storia è entrata negli stadi e gli stadi sono entrati nella storia, senza più uscirne».
Quale memoria custodiscono i templi del calcio giocato?
«Gli stadi custodiscono come veri e propri monumenti o biblioteche pagine importanti della storia umana contemporanea. Sono espressione della nostra società e pertanto luoghi di memoria non solo sportiva, ma anche sociale, politica, umana. Luoghi che conservano nel proprio ventre attraverso l'immaginario comune uno spaccato del nostro tempo, con tutte le sue contraddizioni».
Sembra banale, ma il calcio è lo sport più diffuso ed apprezzato al mondo. Perché proprio il calcio è lo sport più bello del mondo?
«Nell'epoca classica erano gli sport individuali ad essere predominanti, in quella contemporanea sono gli sport di squadra e tra questi il calcio, che su tutti ha offerto da subito la possibilità di essere praticato dappertutto e da chiunque, diffondendosi così a macchia d'olio su tutto il pianeta e rompendo con quella logica che fino ad allora aveva visto lo sport ad uso delle sole classi abbienti. Il calcio è lo sport più popolare al mondo non solo nel senso del più diffuso, ma soprattutto perché è stato abbracciato dalle fasce popolari, ed è il più bello proprio perché è di tutti».
Cosa accomuna tutti gli stadi che hai visitato?
«Ho visto dappertutto, anche se ognuna con le proprie peculiarità e legata al contesto di riferimento, una passione collettiva che diventa rito, cerimonia, religione pagana intorno al calcio e ai suoi templi. E ad essere centrale è sempre la comunità, il sentimento comune. Per questo a ogni viaggio, quando possibile, vado a vedere una partita allo stadio, in quanto luoghi unici per conoscere la cultura di un territorio o un popolo. Assistere a una partita di calcio in uno stadio pieno, per me, oltre alla passione per il football e alle emozioni che mi suscita, è come intraprendere uno studio antropologico sul campo».
In ultimo hai parlato dello stadio di Via del Mare a Lecce. Quanto ha contribuito a tuo avviso il calcio allo sviluppo della città?
«Il calcio ha contribuito totalmente allo sviluppo della città e dell'intero Salento. Nel mio libro A sud di Maradona racconto proprio come il calcio, nella metà degli anni 80 con la prima serie A del Lecce, sia stato un motore di crescita per tutto il territorio e non solo per la città. Da quel momento il Salento usciva dall'isolamento e anche grazie alla ribalta nazionale raggiunta con il calcio iniziava a farsi strada tra le località turistiche d'Italia, sviluppando cultura, senso di comunità, economia. Il calcio nel Salento è stato tra l'altro, in un territorio con 98 comuni più frazioni grande quanto una regione, un collante umano unico per la crescita dell'identità salentina. Nel nuovo lavoro (Sugli Spalti) scritto in collaborazione con Luca Brindisino che ha curato la Prefazione, nel capitolo sul Via del Mare che chiude il libro il sottotitolo recita Il calcio contro il morso della Taranta e c'è un parallelismo tra Tarantismo e calcio, riprendendo il discorso affrontato nel primo libro sull'identità che il pallone ha contribuito a formare in questo territorio. E mentre il morso della Taranta si curava con la musica e la danza incanalando le ansie sociali del Salento di ieri, il calcio prova a mettere un freno a quelle di oggi. Il Salento trova nel calcio la ballata moderna contro il ragno e il suo morso, una terapia collettiva per sfuggire al Mal di vita come lo chiamava De Martino dal quale questo territorio continua a essere affetto. Un disagio sociale in passato legato alla terra, alla cultura contadina e alle sue fatiche che oggi invece parla di disoccupazione, emigrazione forzata, di un'accelerata trasformazione del territorio per agevolare l'industria dell'energia fossile o l'economia del turismo mordi e fuggi. Con le annesse dolorose deturpazioni che ne conseguono. Insomma calcio e cultura del territorio sono profondamente connesse nel Salento».
Qual è la differenza fra vedere uno stadio in tv e visitarlo dal vivo?
«C'è un'enorme differenza, sugli spalti si respira la passione umana, si prende parte a un rito collettivo e non si è mai soli, si fa parte di un corpo, di una comunità che esprime senso di appartenenza. Allo stadio il nostro cuore batte insieme a migliaia di altri cuori, si emoziona, gioisce e soffre in un modo che non riesce a fare davanti alla tv. Questa crea distanze, raffredda le emozioni e le relazioni sociali mentre uno stadio le alimenta, è il luogo di socialità per eccellenza dove vivere emozioni in comune. Nel mio caso è stata un'avventura sugli spalti e sulle strade del mondo, un incontro con il mondo reale, i suoi popoli e le loro culture, pertanto ho preferito visitarli piuttosto che vederli in tv».
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