Un uomo e una donna sepolti in un abbraccio da 28mila anni: un mistero ancora da decifrare

Un uomo e una donna sepolti in un abbraccio da 28mila anni: un mistero ancora da decifrare
di Ilaria MARINACI
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 11 Novembre 2020, 12:20 - Ultimo aggiornamento: 31 Gennaio, 18:59

Un uomo e una donna giacciono abbracciati da 28mila anni nella Grotta delle Veneri di Parabita. Si pensava fossero solo due corpi che occupavano la stessa tomba, una rarissima sepoltura bisoma, ma, in realtà, c’è molto di più. Avevano i visi rivolti l’uno verso l’altra con le gambe intrecciate in un abbraccio nella morte che testimonia un legame in vita. Di che tipo fosse questo legame, è impossibile dirlo, ma l’intimità del rapporto tra i due è innegabile. Questa è solo una delle importanti novità che emerge dal volume “La Grotta delle Veneri di Parabita (Lecce)”, curato da Elettra Ingravallo e Renata Grifoni Cremonesi, uscito pochi giorni fa per Edipuglia, nove mesi dopo la scomparsa della paletnologa salentina. Si può dire che si tratti della sua eredità, se si considera il fatto che la Ingravallo, allieva di Giuliano Cremonesi, partecipò con lui alle campagne di scavo nella grotta effettuate fra il 1967 e il 1972, proprio all’inizio della sua carriera.

Ad individuare il sito fu, due anni prima, un appassionato di archeologia, Giuseppe Piscopo, che rinvenne anche le due celebri statuine femminili, le “Veneri”, da cui ha preso il nome la grotta, oggi custodite al MarTa di Taranto.

Il volume – curato insieme alla moglie di Cremonesi, archeologa anche lei – è composto da una serie di contributi scientifici sulle decine di migliaia di reperti che mostrano la frequentazione ininterrotta della grotta dal Paleolitico Medio fino all’Età del Bronzo. «Ci sono state pubblicazioni preliminari sulle Veneri e sulla sepoltura bisoma – spiega Ida Tiberi, allieva della Ingravallo – ma lei aveva la ferma volontà di pubblicare integralmente questa mole enorme di materiali». Negli ultimi anni, Tiberi e la sua collega Giorgia Aprile sono state allieve e collaboratrici strette della paletnologa e, dopo la sua morte, hanno coordinato il lavoro fino alla pubblicazione del volume, oltre ad essere autrici di alcuni degli articoli. La frequentazione della grotta parte con l’uomo di Neanderthal (intorno 60.000-50.000 anni fa), seguito da una fase di transizione detta dell’Uluzziano (45.000-40.000 anni fa) che segna l’arrivo del Sapiens con le diverse fasi del Paleolitico superiore (40.000-10.000 anni fa). Alla fase Gravettiana risalgono sia le Veneri che la sepoltura bisoma con uno scarno corredo costituito da un ciottolo e un raschiatoio tinti di ocra e da un copricapo fatto con canini di cervo. L’analisi di questi canini è stata fatta da Jacopo De Grossi Mazzorin e uno di questi è stato sottoposto dal Cedad dell’Università del Salento, diretto da Lucio Calcagnile, a datazione assoluta. «Significa che oggi sappiamo con certezza – prosegue Tiberi – che la deposizione dei due nella tomba è avvenuta fra 28.800 e 28.300 anni fa. Questa è l’altra grossa novità portata da questo studio, resa possibile dalle analisi effettuate con le nuove tecnologie disponibili, perché prima sapevamo genericamente solo che risaliva alla fase Gravettiana». Alla fine del Paleolitico superiore gli abitanti della grotta incisero una grande quantità di ossa e pietre, circa 500, con una sintassi geometrico-lineare allora in voga in Italia e in Europa. È una delle espressioni artistiche del Sapiens al pari dell’arte “naturalistica” dipinta sulle pareti dimolte grotte. Con l’arrivo del Neolitico (VI-IV millennio avanti Cristo) cambiò la vita dei cacciatori-raccoglitori: subentrò un’economia basata su agricoltura e allevamento, che richiese contenitori in ceramica, strumenti levigati e non solo scheggiati come asce e accette e oggetti di carattere cultuale come le pintadere, specie di timbri per tatuare o per imprimere marchi. Nacquero nuovi riti e credenze, si affermò una religiosità di tipo agrario con al centro il protagonismo della Terra da cui dipendono le sorti delle creature viventi. Nella grotta si svolsero riti come lo scavo di buche per deporre offerte (oggetti pregiati e vasi decorati). Nel corso del Neolitico, si sviluppò una rete di rapporti, grazie anche alla navigazione, che permise scambi e contatti con le regioni del Mediterraneo, mentre con l’Eneolitico (IV-III millennio a.C.) molte grotte divennero sedi di sepolture collettive e accanto all’inumazione si praticava anche l’incinerazione.

Nel II millennio continua la frequentazione della grotta ma con un carattere più dimesso. Nel volume – la cui realizzazione non sarebbe stata possibile senza il supporto della Soprintendenza e dell’Università del Salento – la Ingravallo firma l’introduzione e le conclusioni, tirando le somme di un lavoro destinato a restare una pietra miliare nello studio del sito di Parabita, reso, peraltro, molto complicato dal fatto di essere stato nel corso del tempo oggetto di scavi clandestini che hanno rimescolato i reperti dal Neolitico all’età deiMetalli. «Si spera con questo volume – scrive la studiosa – di aver saldato il debito che alcuni di noi avevano contratto con la grotta, esponendo i risultati di una ricerca aggiornata con un linguaggio comprensibile a tutti che però non rinuncia al suo rigore scientifico. Comunque lo si giudichi, resta il fatto che è stato aggiunto un ulteriore tassello alla conoscenza della preistoria meridionale ed è un merito che va riconosciuto a tutti coloro che hanno collaborato e si sono impegnati per la riuscita dell’opera».

© RIPRODUZIONE RISERVATA