L'intervista/Distanziati ma social, anche grazie alla tecnologia

L'intervista/Distanziati ma social, anche grazie alla tecnologia
di Alessandra LUPO
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Mercoledì 15 Aprile 2020, 19:21 - Ultimo aggiornamento: 16 Aprile, 01:17
Il mondo della scienza e quello delle lettere hanno smesso da tempo di guardarsi con diffidenza, ma quello del digitale ha dovuto faticare a lungo per trovare spazio nel cuore degli umanisti. La prima breccia tra ambiti di competenza (e di interesse) così distanti arrivò con gli studi di linguistica degli anni 40. Da allora il mondo è radicalmente cambiato e negli ultimi 15 anni l'informatica umanistica o Digital Humanities sono entrate a far parte della nostra vita in maniera sempre più presente. E i tempi di pandemia e distanziamento sociale sono state forse uno degli ambiti che più di tutti non è stato colto di sorpresa.
Fabio Ciracì, lei insegna Storia della Filosofia Italiana ma è anche professore aggregato di Informatica Umanistica nonché fondatore e membro del Direttivo del Centro di ricerca interdipartimentale in Digital Humanities. Di cosa si occupa esattamente questo ambito?
«Le digital humanities descrivono un’area di studi complessa, all’interno della quale le discipline umanistiche si intersecano con le scienze informatiche, sia nella loro sfera applicativa, sia nella loro sfera teoretica. Per dirla in maniera semplice, le DH si occupano non solo dei nuovi strumenti informatici per le ricerche in campo umanistico - dalle edizioni critiche digitali ai sofisticati sistemi per scansionare in 3D i monumenti, dalla costruzione di piattaforme di conoscenza condivisa e aperta agli strumenti per l’apprendimento a distanza etc. - ma riflettono anche sulle tecnologie digitali come oggetto di studio. Per esempio, in che modo la digitalizzazione sta cambiando la nostra vita, la maniera di percepire il mondo, di raccontarlo, di archiviare il sapere, di rapportarci con gli altri, di accedere all’informazione; qual è il loro impatto sull’ambiente e sull’uomo; qual è la capacità trasformativa dei nuovi strumenti digitali, come condizionano la nostra esistenza e le nostre abitudini. Si pensi all’impatto delle fake-news sull’opinione pubblica e sull’agire individuale. Oppure alle questioni riguardanti privacy e sicurezza, in relazione alle quali i dispositivi digitali svolgono oramai un ruolo centrale».
Le digital humanities sono sempre attorno a noi, in altre parole. Fanno parte della nostra quotidianità molto più di quanto pensiamo?
«Si pensi, come esempio, al contributo delle DH alla cultura della costruzione comunitaria del sapere, alla rivoluzione culturale portata da enciclopedie condivise come Wikipedia. Per poter progettare un qualsiasi artefatto digitale sono richieste competenze trasversali. Oppure pensiamo alle tecnologie digitali che permettono di operare a distanza o migliorano la sostenibilità dell’ambiente, alle loro implicazioni etiche: richiedono tutti di una riflessione umanistica, perché implicano scelte etiche riguardanti l’uomo e la natura».

La prima a farne uso fu la linguistica... poi si è sviluppata in maniera autonoma, ramificandosi
«L’idea del codice linguistico è profondamente radicata nella mentalità e nella formazione umanistica, e si interfaccia pienamente con la scienza dell’informazione. Umanisti e scienziati convergono quindi sul nucleo teorico delle DH. Potremmo dire che la linguistica computazionale è stato il big bang, l’inizio temporale e spaziale, a partire dal quale si è generata una galassia in espansione (la metafora è di Fabio Ciotti), che trascende le singole discipline e si focalizza su questioni teoriche e metodologiche, su aspetti infrastrutturali ed epistemologici, etici e sociologici. Lo dimostrano i convegni annuali dell’AIUCD- Associazione di Informatica Umanistica e Cultura Digitale, in cui convergono studi e ricerche che abbracciano oramai ambiti sempre più diversi, includendo metodi e risultati dell’informatizzazione del sapere e della digitalizzazione delle pratiche. Quella italiana è poi una ricerca avanzata su molti ambiti: dall’informatica testuale – la grande “scuola italiana” di di Giuseppe Gigliozzi e Dino Buzzetti, di Padre Roberto Busa e Tito Orlandi, Raul Mordenti, Domenico Fiormonte, Francesca Tomasi, Mirko Tavosanis, Maurizio Lana - al mondo del libro, dell’editoria digitale e della multimedialità (Gino Roncaglia e Riccardo Fedriga), sino alla public history (Enrica Salvatori e Serge Noiret), alla sociologia dei new-media (Davide Bennato) al digital journalism (Luca de Biase, Riccardo Luna), per non dimenticare l’importante contributo della filosofia dell’informazione di Luciano Floridi.A livello internazionale la ricerca italiana è molto apprezzata e ha una sua specificità.

Come usa la digitalizzazione l’Unisalento, specialmente in questo periodo funestato dal covid19?
“L’Università del Salento ha saputo trasformare questa crisi in un momento di crescita non solo comunitaria ma anche tecnologica. Dovendo sopperire alla necessità della didattica in presenza e garantire agli studenti il diritto allo studio, ha trasformato in corsa i suoi insegnamenti, sin dai primi giorni: basti pensare che oggi il 100% dei corsi è offerta in teledidattica, ben 710 insegnamenti, oltre 1500 esami svolti su piattaforma digitale, con oltre 1000 superati e caricati sul sistema di verbalizzazione online, a cui vanno sommati gli esami di Laurea, le riunioni degli Organi e i corsi offerti dall’ISufi. Si tratta di numeri importanti, che pochi Atenei, anche quelli più ricchi e blasonati, possono vantare. Qui ha pagato non solo l’attenzione che l’Ateno ha sempre rivolto allo sviluppo tecnologico e alla didattica, con l’azione immediata ed efficace dei suoi delegati, i colleghi Luigi Patrono e Attilio Pisanò, ma anche il senso di comunità e di collaborazione che tutti i componenti dell’Unisalento – Studenti, Docenti, Amministrativi - hanno mostrato, sotto la ferma guida del Rettore Fabio Pollice. Si è trattata di una risposta corale. Inoltre, l’Ateneo ha sempre indirizzato una certa attenzione alla ricerca nel campo dell’informatica umanistica. Lo testimonia l’istituzione nel 2019 di un Centro di ricerca interdipartimentale in digital humanities, diretto dal collega Mario Bochicchio, che coinvolge tutti i dipartimenti dell’Ateneo. Il Centro DH svolge le sue attività su settori che interessano il digital health (Mario Bochicchio), i media studies (Luca Bandirali), il diritto (Marco Mancarella), le arti (Daniela Castaldo), la biologia (Tiziano Verri) e ovviamente la filosofia (con il sottoscritto)”.
Qual è il rapporto tra didattica in presenza e la Didattica a distanza?
«Ovviamente è uno strumento prezioso, ma cambia la modalità della didattica: non si può semplicemente pensare di riprodurre la lezione tradizionale in streaming, perché il nuovo strumento modifica la modalità di erogazione e richiede l’applicazione di nuovi modelli di insegnamento. Per certi versi, la didattica a distanza ha un elevato costo di tempo, sia per la preparazione della lezione da parte dei docenti, sia per l’apprendimento da parte degli Studenti, che sono tenuti a svolgere in autonomia attività che invece erano demandate al contesto classe. Occorrerà quindi fare un bilancio critico dei vantaggi e dei limiti che questo regime telematico ha portato alla vita universitaria, sapendone sfruttare i lati positivi».
Termini come “distanziamento sociale” colpisce molto l'immaginario, soprattutto se letti in termini umanistici. Al di là del ruolo dei social, l'approccio digitale alle scienze umanistiche può aiutarci a fare in modo che il distanziamento fisico non diventi anche umano e psicologico?
«Il termine “distanziamento sociale” è errato: anche se ci troviamo isolati nelle nostre abitazioni rimaniamo comunque in società, perché non vengono meno le relazioni sociali. Il distanziamento sociale è dei criminali o dei bizzarri che non riconoscono le leggi e i costumi della società e le relazioni sociali, quindi se ne distanziano. Di fatto, la pandemia ha imposto il “distanziamento fisico”, in nome della salute pubblica, per evitare che il virus si diffonda. Di certo la tecnologia ha reso meno duro l’impatto della pandemia. In questo tempo inedito, la tecnologia ci permette di poter lavorare a distanza, di impegnarci nello studio, di distrarci con attività ludiche, di tenerci in collegamento, anche visivo, con amici e parenti lontani. Il maggior sacrificio è compiuto dal corpo, dai processi di riconoscimento empatico che sono possibili solo in virtù della prossimità fisica. In questo senso, l’approccio umanistico alle tecnologie digitali è uno strumento essenziale perché non si perda il fine ultimo di ogni forma di tecnologia: l’uomo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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