Dieci anni di solitudine, in un libro la storia politica di Giovanni Pellegrino

Dai processi a Botteghe oscure al rapporto altalenante con D’Alema fino all’esperienza in Provincia di Lecce dopo il gran rifiuto alla Regione

Dieci anni di solitudine, in un libro la storia politica di Giovanni Pellegrino
di Alessandra LUPO
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Mercoledì 15 Febbraio 2023, 08:23 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 22:56

"Dieci anni di solitudine, memorie di un eretico di sinistra" è il nuovo libro di Giovanni Pellegrino, edito da Rubettino. Un saggio che ripercorre i dieci anni in Parlamento dell'ex senatore, arrivato a ricoprire ruoli chiave in alcuni passaggi epocali della storia politica italiana, per poi finire la sua carriera politica alla guida della Provincia di Lecce.


Avvocato, lei in premessa avvisa il lettore dell'intento quasi riparatore di questo libro: mettere nero su bianco il passato perché lo diventi realmente. Ci è riuscito?
«Direi di sì, perché i ricordi della mia lunga esperienza in Senato mi tornavano in mente in maniera confusa. Per me era uno sforzo anche solo metterli in ordine cronologico. Ci ho lavorato per circa due anni, facendo uscire dal pc tonnellate di carte. Ora il cerchio si è chiuso».


Lei ripercorre la sua vicenda politica che l'ha portata ad avere ruoli centrali intrecciando in passaggi fondamentali della storia contemporanea del nostro Paese (compresa Tangentopoli) e anche i suoi protagonisti, penso a D'Alema, Andreotti, Spadolini lo stesso Di Pietro. Eppure lei resterà sempre un po' "in prestito" alla politica, a partire dalla nascita quasi fortuita della sua carriera parlamentare.
«Io ho cominciato a fare politica a 50 anni, il mio approccio era stato di tipo intellettuale. La candidatura stessa era maturata in casa del sociologo leccese Marcello Strazzeri e nell'ambiente attorno alla rivista di critica letteraria "L'immaginazione" di Manni».


Fu l'editore Piero Manni infatti a decidere per lei...
«Sì, secondo me lui e Strazzeri si erano messi d'accordo con Sandro Frisullo, allora segretario del partito, perché accettassi la candidatura perdente al Senato.

Che per una serie di circostanze alla fine mi vide in Aula. Io ero esterno a quel mondo, poi lentamente ci sono entrato dentro».


Spesso più fedele a se stesso che al partito. Penso alla decisione di astenersi dalle votazioni della giunta per le autorizzazioni, ad esempio, malvista dai suoi. Poi arrivò il caso Andreotti.
«Io facevo quello che ritenevo giusto: l'idea che avremmo avuto un vantaggio nel rigettare la richiesta di autorizzazione a procedere contro Giulio Andreotti era sbagliata e avrebbe determinato un'ondata di antipolitica. E siccome il Pci (allora già Pds) era percepito come interno a quel sistema politico, il populismo non ci avrebbe giovato. Poco tempo dopo Berlusconi riuscì a metterci al tappeto in sei mesi».


Ripercorrendo queste vicende si prende qualche rivincita...
«Sì, avevo ragione su una serie di cose ma in politica non c'è torto peggiore di avere ragione in ritardo».


Si sentiva isolato?
«Molto, quell'appiattirci ispirato da Violante sull'azione delle Procure, senza distinguere al loro interno l'orientamento dei magistrati, fu un errore politico. Ma di questo riuscii a convincere solo D'Alema».


Nel libro racconta che le coprì le spalle per molto tempo sulle questioni riguardanti la giustizia.
«Solo su questo punto, sì, perché i fatti mi davano ragione. Gli avevo spiegato che Mani Pulite non riguardava la corruzione ma il finanziamento illecito ai partiti. Quindi la politica che noi dovevamo difendere. Solo tempo dopo, quando il pool si rivolse a uno dei nostri, D'Alema comprese e mi diede il permesso di dire pubblicamente ciò che pensavo, lui mi avrebbe protetto».


Ha subito molti processi interni?
«A me ne fecero tre, il primo a Botteghe Oscure: la possibilità di criticare una decisione dei giudici faceva parte della cultura comunista, per Marx la giustizia era una sovrastruttura borghese, ma in quegli anni lo avevamo dimenticato perché convinti che i magistrati ci avrebbero portati al potere. Ma Mani pulite non aveva una cifra politica. Anche Salvi mi difendeva, d'accordo con D'Alema, convocando a tarda sera le riunioni contro di me che si concludevano per sfinimento».


Con la presidenza della commissione stragi viene fuori una certa ostilità nei suoi confronti. Perché?
«Rivedere gli anni del terrorismo e formulare un giudizio storico era compito del gruppo dirigente. Chi ero io per farlo? Mi boicottarono in fase di approvazione della relazione. E lo fecero anche con quella sul caso Moro che era un gran bel lavoro».


Lei descrive se stesso ma anche la trasformazione del suo partito con una lunga galleria di personaggi che ne hanno dominato le fasi fino a oggi. Ha votato al congresso?
«Io continuo ad avere la tessera del Pd anche se non ho mai condiviso a pieno la visione veltroniana, le stesse primarie aperte per eleggere il segretario di un partito. Preferivo la via laburista tracciata da D'Alema. Ma ho votato e voterò».


Per il laburista Bonaccini o per l'ecologista Schlein?
«Ho votato Schlein perché questo partito ha in questo momento la necessità di un'iniezione di radicalità».


A metà degli anni 90 lei rifiutò la candidatura alle Regionali in Puglia presentando un certificato medico. D'Alema non la prese bene.
«Lui dimentica sempre un passaggio: io lo andai a trovare e lui propose Lorenzo Ria per la Provincia e mi chiese di trovare un profilo simile al mio per Lecce città che io individuai in Stefano Salvemini. Poi lui mi fece alcuni nomi di personaggi baresi che potevano rappresentarci. Il mio nome, come racconto nel libro, arrivò solo dopo, ormai pochi giorni prima della chiusura dei termini. Non conoscevo così bene la Puglia da tuffarmi in una campagna elettorale da zero: mi piace arrivare preparato».


Ha mai pensato a come sarebbero andate le cose in Puglia se avesse accettato?
«Avremmo vinto».

Avreste anticipato la "Primavera pugliese"?
«No, avremmo comunque dovuto fare quello che abbiamo fatto con Vendola alla cui vittoria ho dato il mio contributo. Vendola è stato il miglior candidato che abbiamo mai avuto. Io alle primarie avevo votato Boccia. I fittiani inquinarono il voto mandando in massa a votare Vendola contro cui erano sicuri di vincere».


Un meraviglioso autogol quindi?
«Sì, perché lui fece una campagna elettorale di una bellezza commovente».


Il suo libro si chiude con l'esperienza alla Provincia di Lecce, che pone fine ai suoi "dieci anni di solitudine". Fu per vanità che decise di uscire di scena al culmine della fama?
«Avevo raggiunto il massimo della popolarità, è vero, ma avevo deciso fin da subito che non mi sarei ricandidato per una seconda volta. E poi avevo problemi di salute che mi portarono subito dopo sotto i ferri. Inoltre mio figlio era contrarissimo, ritenendo le seconde esperienze sempre deludenti. E mia figlia in quegli anni si era dovuta sacrificare portando avanti da sola lo studio di Lecce. Sentivo la necessità di andare a darle una mano decidendo anche di non tornare a Roma e perdendo una dimensione che amavo. Perché stare a Roma mi aveva risarcito di una vecchia aspirazione: un po' per vigliaccheria e un po' per questioni di famiglia non avevo proseguito nella Capitale sperando in un immediato successo leccese che invece arrivò anni dopo con la stagione dei Tar».


Da questo punto di vista il suo libro diventa un memoir più intimo...
«Anche se nessuno se lo ricorda, io parto come narratore, scrivevo libri e racconti. La tendenza al racconto autobiografico mi è sempre rimasta».

A chi ne ha mandato una copia?
«Una copia l'ho mandata a D'Alema con la dedica "al mio leader massimo e al nostro altalenante rapporto"».

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