Dal comizio allo spot: la sfida continua
dei politici a caccia di voti

Dal comizio allo spot: la sfida continua dei politici a caccia di voti
di Renato MORO
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Domenica 21 Gennaio 2018, 18:24
C’era la fila, in quei giorni di aprile del 1963, per fare un comizio a Taranto. Gli italiani sarebbero andati al voto il 28 e il 29 e come al solito avrebbero ridato fiducia alla Democrazia Cristiana, sia pure con una piccola emorragia di consensi in direzione del Pli, e tra il Mar Grande e il Mar Piccolo c’era da incassare.
Eccome se c’era da incassare. A ridosso delle ultime case della città stava nascendo il più grande centro siderurgico d’Europa. Migliaia di operai al lavoro nei cantieri, migliaia di mezzi, tecnici, ingegneri e un paesaggio stravolto. «Un’improvvisa forza nuova entra in azione! - annuncia entusiasta lo speaker in un filmato dell’epoca, mentre le immagini mostrano una ruspa intenta a divorare tronchi e radici -. Ulivi secolari cadono come burattini, cadono a pezzi le bianche vecchie case dei contadini e dei pastori, un’immensa platea senza più ombre né segreti...». Era la piana che avrebbe ospitato l’Italsider: 15 milioni e 450mila metri quadrati, tre volte l’estensione della Taranto di quegli anni. Inaugurazione il 10 aprile 1965, in piena attività del governo Moro col socialdemocratico Edgardo Lami Starnuti alla guida del ministero dell’Industria.
Facile venire fino a Taranto e parlare di lavoro, sviluppo, progresso, acciaio, ciminiere e altiforni tra i più grandi e capaci al mondo. Quello che venne dopo, quello che sta accadendo oggi, era difficile se non impossibile da immaginare. E comunque non sarebbe mai stato argomento in una campagna elettorale che celebrava i successi del boom economico.
Suole di scarpe, gomme d’auto, manifesti, altoparlanti per le vie di città e paesi, strette di mano, chili da perdere nastri da tagliare, oratoria e folla, tanta folla. La caccia al voto in quegli anni era fatta così. Ed è rimasta immutata fino alla fine della Prima Repubblica, quando l’uscita di scena dei partiti tradizionali e dei rispettivi leader cambiò il tavolo da gioco e le regole. Poi, con internet e i social, l’ultimo, profondo cambiamento che ha visto quasi del tutto tramontare la piazza come luogo deputato per l’appello al voto. Una sfida impossibile tra strategie e strateghi, un “duello” in fondo senza vincitori né vinti perché è obiettivamente difficile giudicare quale, tra i modi di condurre la campagna elettorale, sia stato e sia quello più efficace. Sicuramente nell’era dei comizi in piazza era la capacità oratoria a fare la differenza, mentre oggi persino una conoscenza scolastica della lingua italiana non è più indispensabile. E non è solo questione del “se sarebbe” o del “più migliori” attribuiti a Di Maio o alla ministra Fedeli, a volte frutto di false interpretazioni fatte girare sui social. Il deficit è molto più vasto e colpisce anche insospettabili, ma basta uno staff in gamba per condurre vincenti campagne sui giornali e sui social passando a volte per quello che in realtà non si è.
Ai tempi delle ruspe che a Taranto portavano il progresso sulle macerie di antiche masserie e sui resti di ulivi millenari, ma anche negli anni Settanta e in buona parte degli Ottanta, le campagne elettorali erano organizzate e gestite dalle segreterie e affidate al coordinamento di politici scafati. Il comizio era il momento più importante, ma anche la tappa finale di un percorso che partiva nelle sezioni e nei comitati, nelle fabbriche e nelle sagrestie. Non c’erano i social, ma c’erano dieci, cento, mille volontari che giravano per le strade dei quartieri con le auto tappezzate di manifesti. “Per la pace e la concordia dei popoli votate e fate votare Democrazia Cristiana!”, urlava il tizio in auto che a seconda della latitudine infarciva gli slogan delle sue inflessioni dialettali. “Contro i padroni votate e fate votare Partito comunista italiano!”, rispondevano i compagni. A volte le auto si incontravano e partivano insulti e sfottò, ma non sono mancate anche le botte.
Le piazze erano molto esigenti e non perdonavano errori, presunzioni o gaffe. A Lecce c’è ancora chi ricorda il comizio che sul finire degli anni Sessanta tenne in piazza Sant’Oronzo Franco Maria Malfatti, esponente di spicco e ministro della Democrazia cristiana in diversi governi. Dal palco allestito vicino al Bar della Borsa (ora al suo posto c’è il McDonald’s) il leader venuto da Roma arringò la folla attaccando la destra che all’epoca a Lecce era padrona del campo. «Dove eravate voi fascisti quando il Paese si rialzava dalle macerie? Dove eravate quando gli italiani non avevano da mangiare? Dove eravate...». Fu tra una domanda e l’altra, in una piazza silenziosa e attenta, che da sotto i portici del Cin Cin Bar qualcuno gli rispose urlando: «Con tua sorella!». Il comizio, raccontano, finì lì.
Era andata peggio, sempre a Lecce, a Giuseppe Saragat. Negli anni Cinquanta, in piena campagna elettorale, il leader socialdemocratico tenne un comizio nella solita piazza Sant’Oronzo. «Vengo dalla Francia ov’ero ambasciatore...», esordì lui che ambasciatore a Parigi lo era stato per davvero. Dalle seconde file, come se avessero obbedito al segnale di un direttore d’orchestra, si udì cantare la canzone del Trio Lescano e Nuccia Natali: «È arrivato l’ambasciator...». Offeso, il futuro presidente della Repubblica cancellò per sempre dalla sua agenda il capoluogo salentino.
La storia delle campagne elettorali è fatta di svolte. E una delle più importanti è sicuramente quella che vide scendere in campo Silvio Berlusconi. Il quale, al di là di ogni giudizio che si voglia dare, può senz’altro vantarsi di aver determinato un cambiamento nel linguaggio della politica. A farne le spese fu il povero Achille Occhetto, “fulminato” dai giornalisti per il vestito color marrone che sfoggiò quando in tivù, ospite di Enrico Mentana, affrontò l’Uomo di Arcore presentatosi in doppiopetto blu. Fu addirittura in quell’occasione, secondo molti osservatori, che il candidato dei Progressisti perse le elezioni.
Una lezione che Massimo D’Alema fece sua quando, qualche anno dopo, fu chiamato da Scalfaro a presiedere il cinquantatreesimo governo della Repubblica. Il look, piuttosto grigio, non era dei migliori e così il deputato di Gallipoli si rivolse al sarto napoletano Gino Cimmino che fece il “miracolo”. Convincendolo a chiudere in un armadio, come scrisse su Repubblica Concita De Gregorio, «le giacche stile Upim».
Quello che nel 1994 nemmeno Berlusconi poteva prevedere è accaduto nei primi anni del Duemila e costituisce l’ultimo, significativo cambiamento nella storia delle campagne elettorali: l’ingresso dei social nella battaglia all’ultimo voto. A studiare le strategie sono ora staff di esperti che conoscono i segreti di Internet, che lottano alla pari con gli algoritmi di Facebook e Twitter, curano l’immagine del candidato nei minimi particolari e la promuovono in spot che usano un linguaggio nuovo rispetto a quelli noiosi cui eravamo stati abituati negli anni Novanta. Una strategia rivelatasi vincente per Michele Emiliano, che nel 2004 corse per la carica di sindaco a Bari con uno spot di Proforma passato alla storia: quello conosciuto come “Metti a Cassano”, girato proprio mentre l’Italia partecipava ai campionati europei di calcio in Portogallo. Meglio riuscì a fare Nichi Vendola nel corso della prima campagna elettorale per la presidenza della Regione, quando sconfisse l’uscente Raffaele Fitto, e nella corsa per le primarie del 2012. Ancora meglio, però, fece Antonio Decaro quando, nel 2014, fu eletto sindaco di Bari. Lo spot “#ChiamaDecaro” lo presentò come l’uomo di cui i baresi avevano bisogno per risolvere tutti i loro problemi. Anche di chi, a letto con la moglie, non riusciva a dare il meglio di sé.
Social e spot sembrano quindi essere le attuali armi vincenti, mentre il comizio, il vecchio comizio, è ormai roba da archeologia elettorale. Roba d’altri tempi, insomma. Di quando le parole dei leader che riempivano le piazze riuscivano da sole a spostare milioni di voti. E le carovane al seguito di segretari e big giravano l’Italia senza sosta per intere settimane. Lo fecero, rischiando, anche negli anni difficili in cui i terroristi sparavano e uccidevano. Come nella primavera del 1978, quando le Brigate rosse sequestrarono e assassinarono Aldo Moro. Enrico Berlinguer, il segretario del Pci che col presidente della Dc e il segretario Zaccagnini trattava per una collaborazione tra i due più importanti partiti, finì sotto scorta ma continuò a fare comizi. I suoi angeli custodi erano una squadra di compagni che il partito gli aveva messo alle costole e due poliziotti, entrambi con la tessera del Pci. Un giorno uno dei due agenti fece vedere la tessera del partito e il questore di Roma, infuriato, lo trasferì a Udine. Berlinguer ci restò male e chiese ai suoi di fare qualcosa. Ugo Pecchioli fece un paio di telefonate al ministero degli Interni e al poveretto fu concesso di lasciare il Friuli per andare a fare il poliziotto nella sua città. E fu mandato a Lecce.
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