Così la Cultura diventa la Cenerentola di Puglia

Così la Cultura diventa la Cenerentola di Puglia
di Vincenzo MARUCCIO
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Martedì 31 Gennaio 2023, 12:45 - Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 05:26

Un passo avanti e due indietro. Come i gamberi. Neanche il tempo di raggiungere un nuovo traguardo che siamo costretti a ripartire dalla casella precedente: un museo apre e l’altro chiude anzitempo, monumenti riaperti giusto un breve periodo dopo il taglio del nastro. Taranto, Lecce, Brindisi: ce le invidiano, ma non riusciamo a valorizzarne la ricchezza per trasformarle in autentici poli culturali. Ne trascuriamo le potenzialità e il divario con il resto del Paese si allarga: siamo bravi a organizzare concerti e fiere; siamo distratti e superficiali se c’è da andare oltre sagre e sfilate di moda. E questa volta l’autonomia differenziata c’entra poco e nulla. È quasi tutta farina del nostro sacco: errori, burocrazia e pigrizia che s’incrociano con una miopia strategica in preoccupante crescita. Il gioco è fatto. Povera cultura: approda altrove e qui, tranne qualche eccezione, restano le briciole. C’è Bari, per fortuna: baluardo di Puglia e punto di partenza per rimediare.

Tutte le criticità

Le cronache degli ultimi mesi sono impietose, quelle degli ultimi giorni scoraggianti. Pensavamo che almeno un’eccellenza come il MarTa di Taranto sarebbe rimasta immune dal “contagio”, ma ci siamo sbagliati. Il Museo archeologico nazionale, gioiello di valore internazionale, è finito sotto i riflettori per le chiusure pomeridiane festive: manca il personale e l’ingresso domenicale viene negato dalle 14 in poi, cioè quando il flusso fisiologico di visitatori tocca i numeri più alti. Come se, fatte le dovute proporzioni, al Moma si vietasse ai newyorchesi il tour all’ora del brunch o alla National Gallery si impedisse ai londinesi la visita all’ora del tè. Il Ministero dei Beni culturali, da troppo tempo, rimanda le assunzioni necessarie a garantire la copertura dei turni. Poche certezze e c’è dell’altro: il settennato del direttore Eva Degl’Innocenti (con i suoi brillanti e riconosciuti risultati) si è concluso lo scorso 31 dicembre, il bando internazionale per il sostituto ancora non c’è e la gestione ad interim della Direzione regionale dei Musei di Puglia non può fare miracoli.

Sarebbe un mistero il perché a Roma non ci abbiano pensato prima, se non fosse che di tempistiche siffatte sono pieni gli archivi nazionali. Ma sbaglia chi dice le colpe sono tutte “romane”: il problema riguarda soprattutto le capacità di una classe dirigente del territorio (la Puglia intera e non solo Taranto) che sta spesso a guardare o si muove tardi quando, invece, bisognerebbe avanzare soluzioni concrete e fare pressing a tutti livelli per ottenere risposte rapide anziché solo applaudire chi arriva dalla capitale per le passerelle importanti. Solo per citare due esempi: gli innovativi concerti dell’ultimo periodo targato Degl’Innocenti e la mostra in corso sui reperti archeologici di area salentina sono eventi di tale pregio che i destini del MarTa meriterebbero ben altre priorità nelle agende politico-istituzionali di chi guida il territorio.

Il caso del Castello Carlo V

A Lecce il caso eclatante si chiama castello Carlo V: restaurato ampiamente qualche anno fa quando furono riportate alla luce le prigioni sotterranee, svelati spazi sconosciuti e resi fruibili i camminamenti sui cinquecenteschi torrioni. Una stagione di nuove aperture - compresa la seconda porta su piazzale Libertini - che scatenò una meritata corsa alle visite dello spazio monumentale più importante della città. Pochi anni fa, ma già un lontano ricordo. Il quadro è cambiato e gli orari di visita sono ora limitati a brevi periodi coincidenti con quelli dei grandi flussi turistici, alla stregua di un lido o di un chiosco di cocktail estivi. E, soprattutto, il sogno di un’integrazione con le pertinenze del Comune - l’atrio e il primo piano sede di mostre - è definitivamente naufragato dopo la recente decisione di cedere la “quota” dell’immobile al Demanio. Motivo: mancanza di risorse. Una scelta del Comune che ha il sapore di una resa senza, forse, che siano state valutate tutte le alternative. Una domanda su tutte: ha senso continuare a disperdere energie e costi per alcuni beni museali con basso appeal, o per contenitori aperti poche settimane all’anno o addirittura chiusi a causa di bandi-capestro nonostante il fiume di riunioni per condividerne formule gestionali finite nel nulla? 
Il Carlo V è un esempio di cattive pratiche più che di illuminanti scelte e il confronto con realtà simili è frustante: il castello di Corigliano vive 365 giorni l’anno e i castelli di Gallipoli e Otranto in primavera-estate fanno incetta di turisti con mostre che nel capoluogo non si vedono da molti, troppi anni. Eppure il Carlo V continua a suscitare interesse come testimoniato dalla recente pubblicazione in due volumi di una serie di studi a esso dedicati. Un’iniziativa di alto valore scientifico presentata, paradossalmente, in un luogo diverso dal castello che avrebbe ben meritato di ospitarne l’evento e che, invece, è attualmente senza un gestore. La plastica rappresentazione di una beffa.
A Brindisi la questione è più intricata, almeno apparentemente. È la città di Virgilio, come viene comunemente ricordata, che però al poeta latino ha spesso voltato le spalle ignorandone la potenzialità del richiamo culturale come elemento trainante di una riconversione a città d’arte - ovviamente parziale, perché non siamo né a Firenze né a Venezia - di alcuni spazi storici o luoghi urbanisticamente cruciali. Sotto i riflettori c’è la Casa di Virgilio che ne costituì l’ultima residenza situata davanti a una delle colonne terminali della via Appia: basterebbe questo per farne tappa obbligata se non fosse che è proprietà privata e che raramente ne sono state aperte le porte. Negli ultimi tempi è stato fatto qualche passo e i tour guidati - seppur sporadici - sono stati apprezzati. Serve, però, una visione più ampia (e un serio investimento) per individuare soluzioni gestionali a medio-lungo termine nell’ambito di una partnership solida e duratura se la strada dell’acquisto pubblico dovesse confermarsi non percorribile. Un’occasione, a Brindisi, finora non colta. È doveroso provarci ora che la città sta esplorando nuove vie identitarie: dall’idea di una succursale del Maxxi di Roma alla suggestione della candidatura a Capitale italiana della cultura 2026. Con la consapevolezza, da consegnare alle nuove generazioni, che il Maxi sarebbe certo bellissimo, ma che dal poeta latino non si può prescindere. Una casa (quella reale o un altro spazio) a Virgilio bisogna darla. La strada maestra perché la cultura - oltre che essere cosa nobilissima - diventi opportunità, indotto, occupazione.
Si può fare molto, si può fare tanto. Senza necessariamente tirare in ballo il Grande Salento come filo conduttore: più che fare massa critica tra “cugini” di periferia per contare sullo scenario regional-nazionale sarebbe il caso di andare oltre i classici campanilismi. E magari guardare a Bari dove certi errori - anche per maggiore ricchezza di snodi storici e di contenitori culturali - sono stati corretti e le soluzioni virtuose hanno messo radici. C’è il Castello Svevo a gestione statale che ospita eventi di assoluto spessore. C’è un polo diffuso di proprietà comunale aperto alle arti contemporanee - Spazio Murat, Teatro Margherita e presto l’ex Mercato del pesce - che attraverso affidamenti snelli e meritocratici è diventato il perno di un’offerta culturale che non fa leva soltanto sulla bellezza delle chiese e sui concerti-evento. A Bari il passo in avanti, a differenza delle altre città, è stato seguito da un altro passo in avanti con il più naturale dei processi: mettendo insieme enti pubblici, associazioni, privati ed esperti per costruire una “rete” di competenze ben oltre i sofismi di funzionari e politici altrove chiusi in torri d’avorio. La vivacità delle nuove generazioni - senza per questo fare lezioni sterili di nuovismo - ha fatto il resto. Gli appassionati e i turisti se ne sono accorti. Anche senza il mare cristallino e i pur legittimi calendari tentacolari di appuntamenti gastronomici.

Copiare no, ma...

Copiare Bari non è il caso, ma prenderne il meglio forse sì. Senza necessariamente guardare ai modelli museali delle grandi mostre del Nord il cui capitale di investitori privati non è facilmente “esportabile” dall’Ofanto in giù. Sentirsi pugliesi dovrebbe essere soprattutto questo. Con la Regione, intesa come istituzione, a cui bussare per chiedere la costruzione di una vera offerta culturale identitaria (oltre le falsa retorica, però) che non passi solo dal sold out luglio-agosto ormai scontato. E non solo per chiedere finanziamenti a pioggia che, dispersi in mille rivoli, accontentano tutti ma spesso non lasciano il segno. Ma questa è già un’altra storia.
 

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