Cristicchi: «Troppa tecnologia, ma sarà l'arte a cambiare il mondo»

Cristicchi: «Troppa tecnologia, ma sarà l'arte a cambiare il mondo»
di Claudia PRESICCE
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Martedì 5 Gennaio 2016, 22:46
Sarà l’arte a cambiare il mondo, come sempre è successo. E lui tra musica, teatro e letteratura, da dieci anni sta lavorando per questo. E' tornato giorni fa in Puglia Simone Cristicchi, alle Grotte di Castellana, nell’ambito della rassegna “Natale nelle grotte”, diretta da Eugenio Finardi, per portare il suo “Viaggi e storie di un fabbricante di canzoni”.

«È un resoconto di viaggio dei miei dieci intensi anni di carriera con tutti i percorsi paralleli che si riuniscono in una valigia, cioè questo spettacolo – spiega – e ci sono ricordi di teatro, musica, festival, ma anche libri, quindi letture e canzoni più conosciute arrangiate in un versione da camera, o nel caso pugliese direi meglio da “grotta”.

C'è anche un monologo che si intitola “A volte ritorno” e parla di Gesù che torna nel nostro mondo e vive una nuova Via Crucis 2.0, imbattendosi in un’umanità che lo lascia perplesso».

Cristicchi, se dovesse scegliere tre momenti importanti di questi dieci anni?
«L’Arena di Verona nel 2005, dove ho esordito alla finale del Festivalbar davanti a diecimila persone con “Vorrei cantare come Biagio Antonacci” segnò l’inizio di tutto. Poi sicuramente Sanremo 2007 con “Ti regalerò una rosa”, perché lì ho avuto modo di mostrare la mia anima di narratore di storie in musica e anche di dare voce al mondo della malattia mentale, cosa che ricordo con soddisfazione. Ma tra i ricordi più importanti rientra l’incontro con la musica popolare alla Notte della Taranta. Arrivare a Melpignano da Sanremo è stato l’inizio di un percorso fuori dalle righe su un palcoscenico fondamentale per chi ama la musica popolare».

Che cosa le è rimasto di quell’esperienza?
«Ha sbalordito me e il coro dei Minatori con cui mi esibivo constatare il potere ancora oggi unificante di questa musica e come a Melpignano avvenga la magia di vedere i più giovani difendere le loro radici musicali, godere di questo ed esaltarsi come non succede altrove».

La sua è una generazione considerata di disimpegnati, salvo eccezioni. Che vuol dire oggi la parola “impegno” per lei?
«Impegnarsi a fare prima una rivoluzione dentro se stessi, cominciare a interrogarsi. Un cantautore come un artista in genere può sostenere la ricerca personale attraverso le proprie opere. Credo nella figura dell’artista come in quella di una vedetta che può indicare delle strade, perché a differenza di chi non ha il tempo di farlo lui può porsi interrogativi e riflettere e mostrare poi il frutto dei propri viaggi agli altri, stimolandoli. L’artista ha una dignità all’interno della comunità soprattutto perché dona il proprio lavoro agli altri e opera per il bene della comunità. Io ho cercato di dare la parola a voci ammutolite dalla Storia: dai matti agli esuli, ai soldati morti in guerra, fino ai teatri chiusi nella canzone “Il sipario”. L’impegno per me è utilizzare l’arte come strumento per capire se stessi e poi rivolgere le proprie scoperte agli altri».

Ma funziona anche in una società distratta come la nostra? Oggi sembra contare più la realtà virtuale di quella vera. L’arte può sfondare questa porta?

«Siamo testimoni di un cambiamento generato dal genio demonio di Jobs, che allibisce se ci pensiamo, ma dobbiamo sperare che dopo l’ubriacatura di tecnologia si torni alla natura delle cose, alla campagna e alla carne vera. Vedo che anche nei teatri la gente guarda il telefonino. L’arte può servire perché attraversando l’ingresso di una mostra, di un teatro si possono aprire nuovi mondi sconosciuti. L’importante è usare un linguaggio che possa coinvolgere anche i giovani, come ha fatto Benigni con la Costituzione o Dante. La semplicità è alla fine la massima raffinatezza».