Carmelo Bene, l’uomo con l’orchestra in gola

Carmelo Bene, l’uomo con l’orchestra in gola
di Eraldo MARTUCCI
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Giovedì 1 Settembre 2022, 05:00

A distanza di vent’anni dalla morte avvenuta il 16 marzo 2002, e nella ricorrenza dell’ottantacinquesimo della nascita (1 settembre 1937), la figura di Carmelo Bene rimane un unicum nella storia non solo del teatro. È anche nota la sua passione insinuante per la musica, in particolare per il melodramma e l’opera, e a questo “amore” lui stesso dedica uno scorcio autobiografico nel capitolo “Palco di prosa (Giuseppe Di Stefano)” tratto da “Sono apparso alla Madonna”. Ma frequenti, come voce recitante, sono state anche le sue collaborazioni con il mondo della musica classica. Tra le più importanti ci sono sicuramente la versione sinfonica di “Hyperion” con musiche di Bruno Maderna, e il “Manfred” di Schumann (le musiche che il grande compositore sassone scrisse per il dramma omonimo di Lord Byron) che il geniale artista portò in scena alla Scala l’1 ottobre 1980.

Partendo proprio da quest’ultimo lavoro, il musicologo salentino Carlo Romano - già docente della Pontificia Università Lateranense e insignito nel 2015 del “Martin Chusid Award for Verdi Studies” dalla New York University – ha condotto un’interessantissima indagine sulla voce di Carmelo Bene, apparsa recentemente su “Antropologia e Teatro” (https://antropologiaeteatro.unibo.it/), rivista scientifica di classe A dell’Anvur.

Professore Romano, come è nata l’idea di approfondire quest’aspetto dell’arte di Carmelo Bene, rimasto finora inesplorato negli studi, ovvero la sua “voce metaforica e di rappresentazione”?

«Alcuni anni fa mi dedicai alla stesura di un articolo sulla partitura del “Manfred” di Schumann (pubblicato poi nel 2009 su “Nuova rivista musicale italiana”), e fu in quell’occasione che mi accostai per la prima volta alla versione beniana del soggetto teatrale. Mi apparve subito chiaro come la voce dell’attore salentino concepisse una dimensione narrativa profonda, in sintonia con le note del compositore di Zwickau e la vicenda drammatica dell’eroe byroniano. Prese così lentamente corpo l’idea di approfondire il fenomeno di una voce che sembrava offrirsi come uno strumento di espansione della parola e del senso, fra dizione naturalistica e canto».

La sua indagine si concentra su tre titoli della “stagione concertistica” di Bene: “Manfred”, “Canti Orfici” e “Lectura Dantis”. Cosa ha voluto mettere in risalto e in che maniera?

«Nel corso della ricerca sono emersi i tratti di un complesso sistema figurativo e metaforico della voce di Bene, un campo sonoro di altezze, timbri, intensità, durate e ritmi vocali correlati al “logos”; un’oralità simulativa, in grado di amplificare immagini di tipo spazio-temporale, cromatico, sommatorio, emozionale».

Lei parla anche di una grammatica calcolata a monte e studiata a tavolino da parte dell’attore. Può spiegare meglio questo concetto?

«Ho potuto verificare quanto, sotto certi aspetti, il lavoro di Bene sulla voce sia preparato ad arte, pensato prima della performance.

Siamo di fronte a un atteggiamento compositivo consapevole, a veri e propri stilemi musicali dal forte potere rappresentazionale. Così, per fare degli esempi (limitandoci al solo parametro dei flussi di altezze): nella poesia “Pei vichi fondi tra il palpito rosso” (dai “Canti Orfici”), Bene puntella il lessico cromatico con l’andamento della voce che sale e scende in corrispondenza, rispettivamente, dei termini “luce” e “ombra”. In “Lectura Dantis”, nel canto di Ulisse, nella metafora dei “remi” trasformati in “ali al folle volo” (navigare oltre le Colonne d’Ercole), la voce dell’attore sale in “ali” e poi ancora in “volo”, e poco dopo sale e scende rispettivamente nelle locuzioni “in suso” e “in giù”; nel “Manfred”, nel dialogo con la Maga, la voce di Bene/Manfred si inabissa vorticosamente in “solitudine”, in sintonia con l’angoscia esistenziale del protagonista. Sono solo alcuni riscontri tangibili di un evidente comportamento referenziale della voce beniana, parallelismi voce-testo peraltro molto diffusi nella retorica musicale, specie nel repertorio madrigalistico del Cinquecento».

Come si inserisce questo suo lavoro nel quadro della poetica beniana che punta tutto sul vuoto e sul “depensamento”?

«Omaggiare Carmelo Bene oggi significa a mio avviso riconoscere il valore artistico di questo chirurgico lavoro sul materiale muto scritto. Alla luce di quella che si attesta, almeno in certi contesti, come una capillare elaborazione semantica della parola, siamo chiaramente lontani da quel monolitico discorso su una voce eversiva di disarticolazione del linguaggio e del senso (“contro il nesso logico, contro il significato e il segno”, scrive Piergiorgio Giacché) che, come è noto, contraddistingue - senza discernimento e direi senza contradditorio - tutta l’ermeneutica beniana. Come pure lontano sembra attestarsi il mantra della “phoné del depensamento”, a cui l’attore ci ha a lungo abituati: “per me la lettura, lungi dalla pretesa noiosissima di riferire lo scritto del morto orale, la lettura, dico, è non più ricordare, è non-ricordo, oblio”; oppure: “non è importante capire una parola, il suo concetto, ma la deconcettualizzazione del concetto”; o ancora: “non me ne importa nulla di devolvere nemmeno per un attimo la mia attenzione a quello che si sta (che mi sta) dicendo”. Non si tratta qui, però, celebrando oggi l’Orfeo di Campi Salentina (in un’intervista su “La Stampa” del 1995 Bene si presentava, nel titolo, come “l’Orfeo della parola”), di sottolineare quelli che parrebbero i limiti di una teoria, quanto prendere atto della complessità di un fenomeno di fronte al quale ogni generalizzazione, in sede critica e di studio, rischia di essere parziale».

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