Sei operaie bruciate vive nella fabbrica del tabacco: 60 anni fa una delle più grandi tragedie sul lavoro che il Salento ricordi

Sei operaie bruciate vive nella fabbrica del tabacco: 60 anni fa una delle più grandi tragedie sul lavoro che il Salento ricordi
di Salvatore COPPOLA
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Sabato 13 Giugno 2020, 08:51 - Ultimo aggiornamento: 11:59
La storia delle tabacchine salentine è stata segnata da momenti di grandi lotte e di altrettanto grandi conquiste sociali, ma anche da immani tragedie. Una delle più gravi si è consumata a Calimera il 13 giugno di sessant’anni fa, quando un incendio sviluppatosi nel magazzino di proprietà di Giuseppe Lefons, gestito (per le sole operazioni di disinfestazione del tabacco) dalla ditta Villani Costantino & C., provocò la morte di sei lavoratrici. Quattro di loro (Natalina Tommasi di anni 30, Luigia Bianco di anni 34, Luigia Tommasi di anni 22 e Maria Assunta Pugliese di anni 46) morirono tra il 13 e il 14 giugno a causa delle gravi ustioni riportate. Un’altra (Epifania Cucurachi, di 27 anni) morì il 16 luglio a causa delle ustioni e della grave intossicazione patita e la sesta (Lucia Di Donfrancesco, di 30 anni al momento della catastrofe) cessò di vivere il 14 gennaio del 1962, dopo un lungo periodo di malattia e di ricovero in diversi ospedali (Lecce, Bari e Napoli).

Oltre alle sei vittime del fuoco e del gas, si contarono diversi feriti, cinque tabacchine (Gaetana Tommasa, Cristina Di Mitri, Elvira Castrignanò, Cesaria Lucia Perrone e Paola Lucia Montinaro) e due operai (Achille Murra, da San Pietro in Lama, aiutante del solfurista Raffaele Martina), e Paolo Greco, marito della Pugliese, che collaborava a quelle operazioni. Restarono feriti meno gravemente Paola Lucia Montinaro (madre di Natalina Tommasi), Vincenzo Gabrieli e il sindacalista della Cgil, nonché assessore comunale, Brizio Niceta Di Mitri, tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro per prestare soccorso.

Il Comune (era sindaco Giannino Aprile) si accollò le spese per i funerali delle povere vittime. Si trattò di una tragedia evitabile se solo fossero state messe in atto le misure precauzionali prescritte da leggi e regolamenti in materia di sicurezza e di prevenzione degli infortuni sul lavoro (in particolare il Dpr n.547 del 27/4/1955 e il R.D. n.147 del 9/2/1927). La tragedia si consumò alle 7.40 di un giorno festivo per Calimera (S.Antonio), mentre le operaie erano intente a trasportare (col sistema del passamano a catena) i recipienti contenenti il solfuro di carbonio (precedentemente travasato da un fustino metallico) dall’angusto locale dove si effettuava l’operazione ai locali superiori dove si trovavano le ballette del tabacco da disinfestare. Un cerino acceso dal vice brigadiere Berardino Cecchini per dare fuoco alla sigaretta che teneva in bocca provocò lo scoppio improvviso e l’accensione del solfuro di carbonio.

Le operaie più vicine furono avvolte dalle fiamme, le altre furono soffocate dai gas tossici. Natalina Tommasi, ridotta a una torcia umana, ebbe la forza di gridare all’indirizzo del brigadiere: “Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”. Luigia Bianco, anche lei avvolta dalle fiamme, gridò “u brigadiere è statu”. Ma la «grave responsabilità» del Cecchini (addetto, insieme con l’appuntato Paolo Logoluso, alla sorveglianza delle operazioni di disinfestazione) e la sua mancanza di «ogni elementare norma di prudenza» non furono da Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione ritenute sufficienti da sole a provocare la catastrofe se non si fossero determinate tutta una serie di concause di cui furono chiamati, con pari grado di responsabilità, a rispondere altri tre imputati.

L’inosservanza, infatti, di una serie di norme a tutela dell’incolumità dei lavoratori fu giudicata altrettanto grave quanto il gesto incauto del vice brigadiere. In sede giudiziaria fu acclarato che l’operazione di disinfestazione del tabacco si sarebbe dovuta svolgere in locali lontani dal centro abitato e non in quelli di proprietà Lefons che si trovavano molto vicini al centro. Gli stessi erano privi di uscite di sicurezza al primo piano. All’interno non c’erano estintori, né indumenti di protezione dalle fiamme e maschere antigas, di cui avrebbero dovuto essere dotate le operaie. Il luogo dove si effettuava il travaso da un bidone collocato su un cavalletto in piccoli recipienti che dovevano essere trasportati ai piani superiori era un angusto pianerottolo posto in cima a una scala da cui si accedeva al primo piano attraverso una sola porta d’ingresso di dimensioni non regolamentari (larghezza inferiore a 1 metro e 10 centimetri).

Le fiamme sprigionatesi davanti all’unica porta d’ingresso crearono una barriera che intrappolò le povere donne, senza che ci fosse per loro alcuna via di fuga. Le finestre che davano sulla strada erano sigillate dall’interno («sbarrate con rete metallica») e chiuse all’esterno da una «robusta cancellata in ferro». Non c’era alcuna possibilità di scampo dall’inferno di fuoco che avvolse e spense le giovani esistenze di quelle povere e infelici donne. A parere dei giudici, in mancanza di porte apribili dall’interno, non si sarebbe dovuto mettere le operaie di fronte ad un rischio che le norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro escludevano per il personale non idoneo. Oronzo Pranzo Zaccaria (amministratore della ditta Villani Costantino & C.) non avrebbe dovuto consentire che venisse utilizzato per un’operazione così pericolosa personale non abilitato, quali erano le tabacchine. Il direttore tecnico (il chimico Donato Colopi) responsabile dell’impiego del solfuro, era assente, nonostante spettasse a lui l’obbligo «morale e giuridico» di assistere e dirigere le operazioni di disinfestazione. Egli aveva lasciato il controllo e la gestione dell’intera operazione al tecnico patentato Raffaele Martina che si fece aiutare dall’operaio Murra.

A parere dei giudici, Colopi non avrebbe dovuto permettere che il travaso del liquido fosse eseguito in un luogo inidoneo qual era lo strettissimo ballatoio collocato davanti all’unica porta d’ingresso ai locali, peraltro molto piccola. Il cerino acceso da Cecchini – queste le conclusioni del Tribunale – non fu da solo sufficiente a determinare l’evento «senza il concorso di cause precedenti, immediate, dirette poste in essere dagli altri tre imputati». Il 19 maggio 1962 si concluse dinanzi al Tribunale di Lecce la prima fase di un lungo e tormentato iter giudiziario che sarebbe terminato sette anni dopo. Sul banco degli imputati finirono il vice brigadiere Cecchini, l’amministratore Zaccaria Pranzo (titolare della licenza per l’utilizzo del solfuro di carbonio), Donato Colopi (direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro), Raffaele Martina (tecnico patentato preposto alle operazioni di disinfestazione) e il dottor Vincenzo Tommasi (ufficiale sanitario). I primi quattro dovevano rispondere dei reati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime (conseguenza di «negligenze, imprudenza, imperizia e inosservanza di leggi, ordini e discipline») oltre che di una serie di reati contravvenzionali legati alla mancata osservanza di norme e regolamenti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e alla violazione di alcune prescrizioni in materia di impiego di gas tossici. Il dottor Tommasi doveva rispondere del reato di falso ideologico per avere certificato che i locali erano «allestiti con tutte le cautele» previste dal regolamento n. 147/1927 sull’uso dei gas tossici. Sulla base del principio giuridico «ogni singola causa è causa dell’evento», il Tribunale inflisse ai responsabili di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime la pena complessiva di 4 anni e 1 mese di reclusione.

La pena fu calcolata sulla base di 6 mesi per ogni operaia morta, 3 mesi per ognuna delle tre persone ferite in modo grave, 1 mese per ognuna delle quattro persone ferite in modo meno grave, cui si aggiunsero una serie di ammende per l’inosservanza dei regolamenti e il risarcimento a favore delle parti civili calcolato in un milione per ognuna delle operaie morte. Il Tribunale assolse il dottor Tommasi con formula piena (il fatto non costituisce reato) essendo risultato che egli, nel rilasciare il certificato, aveva ritenuto «in sua scienza e coscienza, essere il magazzino di via Martano 11 in Calimera attrezzato in maniera idonea all’uso dei gas» e non aveva avuto pertanto intenzione di «attestare cosa fuori dalla concreta realtà».

La Corte d’Appello (sentenza del 15/12/1962) riconobbe agli imputati alcune attenuanti generiche e ridusse la pena a due anni di reclusione. La vicenda giudiziaria si protrasse ben oltre le sentenze di primo, secondo e terzo grado (Cassazione, 25/6/1963). Limitatamente a una parte della sentenza della Corte d’Appello di Lecce, infatti, il processo fu rinviato dalla Cassazione alla Corte d’Appello di Bari che si pronunciò il 22/5/1964. Un nuovo ricorso in Cassazione si concluse (5/2/1967) con un altro rinvio alla Corte d’Appello di Bari, la cui sentenza fu impugnata per Cassazione che si pronunciò definitivamente il 19/5/1969. I nomi delle sei tabacchine di Calimera rimarranno per sempre scolpiti, oltre che nel cuore dei calimeresi e dei salentini tutti, anche sul monumento ideale dedicato a quanti nel Salento sono Caduti per pane e lavoro.
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