Calabresi: «Il tempo ritrovato, e prezioso, della mattina dopo»

Mario Calabresi
Mario Calabresi
di Rosario TORNESELLO
5 Minuti di Lettura
Martedì 3 Dicembre 2019, 22:19
Il tempo. In questo libro, dedicato a quanti si prendono cura di chi combatte per tornare alla vita, è il tempo la variabile fondamentale. Intanto nel titolo, La mattina dopo. Dopo qualsiasi dolore, sofferenza, smarrimento. Dopo la morte di un genitore, un amico, un compagno, un figlio. Dopo la perdita di un lavoro, un tragico errore, una bocciatura. Dopo una clamorosa sconfitta. La mattina in cui provi a difenderti e a proteggerti o quella in cui inizi a naufragare. Quel risveglio che per un istante è normale ma subito dopo viene aggredito dal dolore.

Il tempo, allora. Anche quello necessario per farsene una ragione. Mario Calabresi, giornalista prossimo ai 50 anni, direttore della Stampa prima e di Repubblica poi, fino al febbraio scorso, parte da qui. Da un sogno ricorrente che diventa incubo ad avventura finita: svegliarsi, correre al giornale, fare la riunione, proporre idee e affrontare all'improvviso il silenzio, perché quello non è più il nostro luogo; non è più il nostro tempo. Non esiste una vaccinazione per la mancanza delle abitudini, spiega. Solo il tempo, declinato in vari modi. Qui la memoria diventa racconto. Minuzioso, dettagliato. Intimo. C'è molta più umanità e verità nella difficoltà che nell'esaltazione della vittoria. Una cosa l'ho imparata da bambino, che se i rovesci si impara ad accettarli e si ha pazienza di alzare lo sguardo, allora diventano vere le parole di Leonard Cohen: in ogni cosa c'è una crepa, è da lì che passa la luce. Questo, in fondo, è un viaggio. Al centro di storie che gli stavano a cuore. Le sue storie. Quelle che contenevano la soluzione. E il tempo, prima vuoto, poi lento, diventa il tempo ritrovato. Utile a fare le cose per bene. Come scrivere un libro, ad esempio. Questo libro.

Le vicende narrate sono esempi di coraggio, di cambiamento. Parlano di persone che hanno superato il dolore e lo sgomento. Incluso lei, che di mattine dopo ne ha avute, la più tragica la prima, a due anni e mezzo, quando uccisero suo padre, il commissario di polizia Luigi Calabresi. Ma dopo, quali sorprese le ha riservato questo libro?
«La cosa più interessante è questa: sulla mia pagina Facebook, aperta a settembre e quindi con anni di ritardo sul resto del mondo, mi hanno scritto migliaia di persone. Raccontavano la loro esperienza, spiegavano quanto il tema fosse sentito. In un'epoca che celebra solo il successo e le eccellenze, mettere a nudo sconfitte e sofferenze, insieme con la forza di superarle, è stato molto apprezzato: Finalmente. Se lo ha detto lei, possiamo dirlo anche noi».

Si aspettava accoglienza diversa?
«Ero convinto che potesse servire a incoraggiare le persone a rialzarsi. Io trovo che far finta sia tutto perfetto, quando invece le cose non vanno bene, sia doppiamente sbagliato: non sei creduto e, per questo, rischi di essere compatito o deriso. Perciò niente lamentele e niente falso ottimismo».

Qual è stato il capitolo più difficile da scrivere, l'episodio più lacerante da rivivere?
«Il giorno in cui ho accompagnato mia madre a riaprire, dopo tre anni dalla morte, lo studio di Tonino Milite, suo secondo marito e mio padre adottivo. Ogni suo oggetto era lì. I pennelli, il cavalletto, una poesia attaccata alla libreria, Fiorirà. Ci sono momenti in cui il dolore deve essere attraversato. La foto di copertina del libro lo spiega in un'immagine potente: se sei fermo davanti all'onda che arriva, la prendi in faccia, bevi e finisci sott'acqua. Invece in quell'onda ti ci devi buttare. La devi attraversare tutta. Dovevamo smontare lo studio di Tonino. È doloroso, ma dopo ci si rasserena».

A Parigi lei incontra Giorgio Pietrostefani, condannato come mandante dell'assassinio di suo padre e da anni rifugiato in Francia. È l'ultimo capitolo.
«Andava fatto. Questo libro chiude il cerchio di una storia personale e, idealmente, dopo quasi tredici anni, anche il mio primo libro, Spingendo la notte più in là. Era faticoso ma anche importante. Questi percorsi sono fatti di passi avanti e marce indietro, fondamentali per trovare una pace interiore. Il giorno dopo finisce solo quando i conti sono regolati. E il mio, così, è finito davvero».

Rispetto a tutti gli altri racconti, curati fin nei minimi dettagli, minuziosamente descrittivi, nessun accenno ai contenuti del dialogo tra lei e Pietrostefani, seduti uno di fronte all'altro nella hall di un anonimo albergo parigino. Perché?
«Lì non ho fatto il giornalista. Ero un figlio alle prese con una questione privata. Null'altro. Per il resto, è vero: nel giornalismo la cura dei dettagli è fondamentale».

Un giorno di febbraio le hanno comunicato che da quel momento non sarebbe stato più il direttore di Repubblica...
«Ho provato a dare un valore speciale agli spazi vuoti, agli appuntamenti che si diradano, alle mail che si azzerano, agli inviti che si dimezzano, considerando tutto come un'occasione. La sfida è questa. Gli equilibri mutano, cambia la percezione del tempo: prima sembrava che sfuggisse, poi diventa improvvisamente lungo. Hai modo di capire e apprezzare cose che non vedevi. E ho scoperto il piacere di recuperare le notizie del giorno dopo. Tornare sulle storie è fondamentale. Corriamo sempre sull'ultimo evento, bello o brutto. E poi che succede? Il giorno dopo tutti da un'altra parte. Invece le storie hanno molti risvolti: ritornarci su ti fa capire perché è accaduta una certa cosa e quali conseguenze ha determinato. Pochi giorni fa eravamo tutti concentrati su Venezia. Ma nel frattempo cos'è successo? I negozi riaprono? Che danni ci sono stati? Sono tornati i turisti? Hanno dato un'accelerata al Mose? Sono vicende ricche di domande, alle quali dare risposte. Ho cercato di compiere questo sforzo, alla Stampa e a Repubblica. Ora lo farei con maggiore intensità: tenere una vista ampia sui fatti, analizzarli a distanza. Senza inseguire l'ultimo tweet di un politico. Occorre lavorare sui motivi e sui contesti».

Oggi sarà a Lecce, nel reparto di Oncoematologia pediatrica, a incontrare i genitori dei bambini ammalati.
«Sono i luoghi in cui un libro, con tutto ciò che ha dentro, può avere massimo valore. Serve a mettere insieme esperienze diverse e a confrontarle. Può essere utile capire che ci sono altre persone che affrontano la tua stessa identica sofferenza».

Cosa immagina, per sé, nel futuro?
«Diciamo meglio cosa mi piacerebbe: potermi occupare di un modo di raccontare le cose più lento, più approfondito. Che poi vuol dire libri, documentari... Modalità tutte segnate da un passo diverso. Poi, per carità, c'è sempre bisogno di qualcuno che faccia quello di cui mi occupavo prima, e cioè inseguire l'ultima notizia. Ma serve anche questo: il tempo giusto per raccontare le cose. Con calma, per bene».


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