“Brucia l'aria” nella terra di Monopoli/L'intervista

Foto: Giuseppe Putignano
Foto: Giuseppe Putignano
di Alessandra LUPO
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Mercoledì 27 Ottobre 2021, 12:44 - Ultimo aggiornamento: 11 Dicembre, 23:32

Problematici, combattuti, malconci ma mai del tutto vinti. Altri personaggi si aggiungono alla saga del Salento noir tratteggiata da Omar di Monopoli che nel suo “Brucia l'aria”, il primo edito da Feltrinelli dopo la lunga frequentazione con Adelphi, narra la storia di una famiglia fortemente condizionata dalla figura del padre scomparso vent'anni prima e dai vincoli schiaccianti del contesto sociale. Come negli altri romanzi, la condizione dei suoi antieroi è spesso sul bilico di un baratro esistenziale, che solo il loro esercizio - talvolta spiazzante - del libero arbitrio può cambiare.
Precamuerti, Canzirru, Rocchino e tutti gli altri: l'universo del tuo profondo sud si arricchisce e amplia, alcuni invece tornano sulla scena un po' invecchiati. Sono ancora una volta marginali e risucchiati dalla loro vita.
«In parte sono personaggi nuovi, certo. Ma, assecondando un'idea di universo condiviso o, meglio ancora, di contea faulkneriana in cui le cose succedono plasmando storie, qui ricompaiono i Minghella, già presenti in Uomini e cani, due fratelli malacarne che finiscono in rotta di collisione coi Caraglia, questi sì assolutamente inediti: una famiglia di disperati il cui capostipite faceva il pompiere ma si beccava il pizzo minacciano sfracelli col fuoco».
Un tema attualissimo, se pensiamo all'ultima drammatica estate d'incendi.
«Il fuoco è centrale, in «Brucia l'aria». Parte infatti tutto da un grande incendio che divorò una porzione consistente del capitale paesaggistico dalle mie parti, nei Novanta. E poiché il tema dei roghi incontrollati durante la stagione calda continua a rappresentare da noi un problema, ho pensato bene di costruirvi attorno una storia corale, che verte (anche) sulla piromania, ma soprattutto attorno ai destini di un pugno di piccoli criminali sbilenchi: rubagalline che si credono divinità sino a quando il fato non sopraggiunge a chieder il fio delle loro mattane. Il riscatto di questi antieroi è sempre affidato a vie troppo impervie e deragliate per espletarsi compiutamente: non diremo come, ma le cose non vanno esattamente per il verso giusto anche in questo romanzo».
Torre Languorina è ancora una volta la tua torre Colimena ma per certi tratti ricorda parecchio anche alcune località della costa adriatica del Salento, all'ombra di Cerano, rigorosamente fuori dalle rotte turistiche.
«Torre Languorina, il teatro degli eventi di questo romanzo, è anch'essa un lascito del mio romanzo d'esordio e in qualche maniera riflette effettivamente la reale località di Torre Colimena ma è al contempo la summa di dozzine di centri balneari pugliesi simili, luoghi che per la maggior parte dell'anno ristagnano in un deserto western piantonate solo da pochi isolati presidi di civiltà urbana e che poi, improvvisamente, in estate diventano meta di un turismo incontrollato. Credo siano il set migliore per rappresentare e far comprendere la contraddizione della mia Puglia: una regione in cui le sfavillanti luminarie dell'estate spesso abbagliano e nascondono ai villeggianti i crateri dell'inverno: voragini in cui si annidano mostruosità arcaiche, figlie forse della Questione Meridionale».
In questo libro c'è una famiglia disfunzionale che fa i conti con un padre morto venti anni prima, un vecchio amore che ritorna in uno scenario problematico e intorno le tante forme del male che riemerge sempre nelle tue storie. E che in questo caso è rappresentato dalla presenza pervasiva di un clima malavitoso. Sia a livello personale che geografico sembra che i protagonisti siano invischiati nelle sabbie mobili delle loro origini.
«Da quasi un ventennio sto allestendo una sorta di mia personale contea letteraria fatta di piccole metropoli rurali e agglomerati balneari in cui un'umanità dispari s'incrocia consumando passioni, aspirazioni e violenze. La storia personale, i vincoli di sangue, sono naturalmente un lascito pesante per ogni pedina di questo gioco - un gioco dannatamente serio, sia chiaro - in cui alla fine si parla di ambizioni appassite e sentimenti negati. Rocco, ex galeotto che cerca di rigare dritto trasportando acqua nelle marine, combatte ogni giorno con una reputazione dolorosa che gli impedisce di vivere la propria vita con rispetto e speranze per il futuro, eppure cerca di farlo a dispetto dello sguardo in cagnesco dei suoi concittadini e delle grane che il fratello minore gli procura perseguendo un ideale di potere e guadagno facile all'interno dei circuiti delle scommesse malavitose».
In questo nuovo romanzo il linguaggio che usi appare ancora più preciso e ritmato senza perdere una sorta di solennità negli scambi verbali. Hai iniziato a pensare direttamente nel dialetto mescolato dei tuoi personaggi?
«Il dialetto è in realtà da sempre una componente centrale del mio lavoro di ricerca, ma non è ovviamente l'unico aspetto che caratterizza la mia voce: il registro alto, fortemente evocativo, oserei dire quasi biblico, è, sin dal principio della mia avventura con la pagina scritta, un assillo ricorrente tanto quanto l'utilizzo cadenzato del vernacolo. E questo nella misura in cui queste storie le scrivo ascoltando un suono interiore che cerca di continuo un bilanciamento, quasi un contrappeso perenne, tra la musicalità terragna del parlato della strada e lo svolazzo pindarico del lirismo. Sta tutta lì, la sfida: far sì che la pagina somigli a una partitura musicale ben calibrata. Ovviamente lo decide ogni volta il lettore quanto questa scommessa sia stata vinta».
Faulkner per il clima, Camilleri e Gadda per l'uso della lingua. E poi le tante etichette che il tuo lavoro ha guadagnato negli anni, da south gothic a western pugliese, noir salentino. Altre affinità che per ora in pochi hanno colto?
«Sono cresciuto in seno al gotico meridionale di grandi eminenze a stelle e strisce come, appunto, William Faulkner, ma è nelle grandi penne barocche del nostro Sud che la mia scrittura trova alimento: i D'Arrigo, i Bufalino, i Consolo. Il sensazionalismo così come il piglio serrato e cinematografico è decisamente made in USA, ma la costruzione della pagina, la meticolosa ricerca della melodia verbale che alcuni scambiano per «iperstile», sono figli di una tradizione tutta italica, tutta terrona. A sorpresa però, mi sento di dire che spesso mi lascio condizionare anche dalla libertà linguistica di un grande scrittore del Nord: Beppe Fenoglio, forse la più americane delle nostre voci».
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