Bacio, un apostrofo rosa... tra parole in dialetto

Bacio, un apostrofo rosa... tra parole in dialetto
di Claudia PRESICCE
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Domenica 5 Novembre 2017, 21:40
Se un’idea aderente alla raffinatezza e all’eleganza fino a ieri improvvisamente sposa la genuinità dei “volgari municipali”, cioè i dialetti detti alla maniera di Dante, significa che davvero qualcosa nell’aria sta cambiando. Solo fino a qualche decennio fa (e non secoli fa) accostare un prodotto commerciale dallo stile ricercato con qualcosa di strettamente provinciale come una lingua popolare sarebbe stata eresia impensabile. Oggi, al contrario, l’uso di pubblicità sempre più calate in realtà meno asettiche, fortemente caratterizzate da una localizzazione riconoscibile, è diventata una strategia acclarata. Tuttavia finora questa tendenza ha riguardato soprattutto prodotti enogastronomici, destinati al largo consumo, la cui riconoscibilità territoriale era quasi sinonimo di origine controllata (come il vino, l’olio o il formaggio per intenderci). Che invece si arrivasse a vedere la svolta “local” anche per il classico Bacio Perugina, con il suo rigoroso packaging argenteo disegnato dall’artista futurista Federico Seneca a metà degli anni Venti, non era davvero cosa prevedibile.

Vero è pure che quando nacque il prestigioso cioccolatino inventato dalla giovane signora Luisa Spagnoli, due anni prima di diventare “Bacio”, venne chiamato volgarmente “Cazzotto”, per la sua forma o forse anche un po’ per l’aria di ribellione e di anticonformismo che nel 1922 rendeva così chic la sua creatrice. Segretamente innamorata di Giovanni Buitoni, l’amministratore delegato della Perugina, leggenda vuole che Luisa scrivesse brevi messaggi al suo innamorato avvolgendoli attorno ai cioccolatini che lui doveva controllare: da qui sembrerebbe nata l’idea del cartiglio interno con frasi romantiche.

Messi da parte romanticherie e leggendari sogni d’amore, oggi il cioccolatino sceglie la popolarità e la schiettezza di nove dialetti italiani e, sia nella confezione esterna che nel cartiglio, diventa “Baso”, “Baxo”, “Vasu”, “Basín”o, in pugliese, “Vase”. Il dialetto conquista territori mai colonizzati prima e, i delicati messaggi d’amore un tempo affidati ai poeti, parleranno la lingua popolare dei proverbi delle diverse regioni italiane. “Le emozioni parlano in dialetto! Parla come baci” è il nuovo slogan della campagna pubblicitaria che ha sdoganato il pregiato cioccolatino (ormai della Nestlè, che ha inglobato la Perugina) e che invita anche i consumatori a consigliare i loro modi di dire dialettali preferiti, proverbi locali dimenticati o motti, da inserire nella mappa interattiva sul sito in un’operazione di recupero interessante. Restano sulla confezione i due amanti che si baciano ispirati al celebre dipinto di Hayez “Il Bacio”, ignari della “rivoluzione” che si consuma intorno. 
Tuttavia il linguista avverte: «Recupero del dialetto? No, questa è un’operazione commerciale», spiega Mirko Grimaldi, docente dell’Università del Salento di Psicologia del linguaggio, Dialettologia.

Dialetto e marketing: Grimaldi analizziamo l’idea di trasformare i “Baci Perugina” in “Vase”.

«Mi pare genuina, se non altro perché ritorna alle origini e poi riporta all’attenzione i proverbi di una cultura scomparsa, ma di cui siamo tutti intrisi, anche se ormai inconsapevolmente. E il fatto di coinvolgere gli utenti nella creazione di una banca dati online è positiva. Però facciamo attenzione, il tutto è finalizzato a vendere il prodotto. Si ricorre al dialetto per sfruttarne la sua funzione evocativa, perché il dialetto e i proverbi rimandano emotivamente “ai bei tempi andati” che non tornano più. Giocare con la memoria è un meccanismo di cui ognuno di noi fa esperienza quando si ritrova a pensare a eventi passati che appaiono sempre migliori del presente. Ci danno forti emozioni che ci fanno dimenticare che, quando li vivevamo, non erano poi così idilliaci. Il cervello funziona così. Ma non solo. Tempo fa un collega americano ha studiato con la risonanza magnetica il cervello di un gruppo di soggetti esposti a slogan pubblicitari dimostrando che gli spot più efficaci sono quelli che attivano meno le aree del cervello preposte all’analisi razionale degli eventi e molto di più le aree preposte alla gratificazione e all’empatia. In pratica ci manipolano, ma non ce ne accorgiamo se non abbiamo gli strumenti».

Per questo la pubblicità, anche negli slogan, ha scoperto i dialetti?

«I pubblicitari sono molto sensibili al cambiamento dei tempi e sanno sfruttare tutte le tendenze in atto a loro vantaggio. E si sono accorti che i dialetti a un certo punto non sono stati più percepiti come una colpa da espiare o un marchio di povertà, ma come una risorsa nuova. I dati Istat ci dicono che è aumentata la quota di chi usa l’italiano abbinato al dialetto in famiglia, con amici ed estranei. E poi sono diventati negli ultimi anni una risorsa espressiva nuova tanto da entrare in contesti in cui non ce li aspettavamo: conversazioni in chat, sms, Facebook, WhatsApp, musica hip-hop (e non solo), ecc. Molte sono state le campagne pubblicitarie in cui i dialetti erano parte integrante dello slogan (basti pensare al famoso spot della Lavazza con Enrico Brignano). Anche il marchio di jeans Diesel anni fa lanciò una campagna dal nome inglese “Be stupid” (Essere stupidi) declinata nelle varianti dialettali di diverse regioni sotto forma di proverbi: “Elfurb va a ciapà i rat, el stupid la topa” (“Il furbo va a prendere i topi, lo stupido la topa”); “O scienziato tìnn l’ampolle, o stupid e pppalle” (“Lo scienziato ha le ampolle, lo stupido le palle”), ecc. Con l’idea di denigrare la stupidità si voleva valorizzare la marca di jeans, acquistata ovviamente solo da persone intelligenti».

E veniamo all’idea del proverbio in dialetto recuperato.

«I proverbi, sentenze concise sotto forma di frasi finite con intento di giudizio sui fatti del mondo, rappresentavano per le culture popolari, una sorta di enciclopedia orale, a portata di mano, memorizzata e tramandata di generazione in generazione. Si trattava di un’enciclopedia basata sull’osservazione “ingenua” della realtà. Per risultare efficaci e memorizzabili, i proverbi sfruttavano espedienti retorici molto comuni come l’allitterazione (ripetizione di suoni simili), la rima (o assonanze e consonanze), il ritmo, e soprattutto le varie declinazioni della metafora. La metafora fornisce al proverbio un ventaglio di interpretazioni possibili e adattabili in contesti diversi: “Tre cose te nnutacane lu core: u cutugnu, u persicu e le parole” (tre cose ti strozzano il cuore: la mela-cotogna, la pesca e le parole); “U purpu ccu l’acqua sua stessa se coce” (il polipo si cuoce con la sua stessa acqua)».

Ma oggi i proverbi sono quasi scomparsi nell’uso e nella memoria.

«Infatti, le strutture proverbiali sono state riprese e sostituite da slogan di vario tipo. Ma, se il proverbio portava i parlanti a riflettere sul mondo, anche ingenuamente, invece gli slogan hanno una funzione del tutto diversa (nella pubblicità, ma non solo): non devono far pensare, ma controllare il pensiero in modo acritico. “Toglietemi tutto, ma non il mio Brail”; “Colussi – bontà colussale”: lo slogan è una formula che conserva molte proprietà dei proverbi, ma la sua funzione è quella di far agire e non di far pensare. Si tratta di un “pensiero” che frena il pensiero, lo addormenta, ne sospende la responsabilità; un pensiero che ci regala il sollievo, la soddisfazione e il piacere di pensare per noi (e ci porta a comprare e a fare cose di cui non sempre abbiamo bisogno). È interessante questo fatto: cambia la cultura, cambia la lingua, e le stesse proprietà dei proverbi (che sono proprietà universali del linguaggio) vengono riutilizzate per anestetizzare i cervelli. Purtroppo la scuola, di ogni ordine e grado, non addestra al pensiero critico e non fornisce gli strumenti ai parlanti per smascherare l’inganno. Forse fornendo ai futuri cittadini e alle classi dirigenti qualche dato nozionistico in meno e un addestramento prolungato al pensiero critico l’Italia e soprattutto il Sud non sarebbero nella situazione in cui sono».
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