Tra artisti e scienziati un identico sentimento

Tra artisti e scienziati un identico sentimento
di Paolo Maria MARIANO
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Mercoledì 7 Luglio 2021, 05:00

Possiamo declinare in vari modi il rapporto tra arte e scienza. Possiamo discutere di come le immagini che emergono nella pratica della scienza possano essere intese come opere d’arte. Poi possiamo discutere anche come quelle immagini influenzino la produzione d’arte.

In letteratura, Mircea Cartarescu ha fatto largo uso del lessico medico, raccontando vicende semi-oniriche come un’intrusione esplorativa in un materiale organico in disfacimento; Lewis Carroll era affascinato dalla logica e dalla matematica; la scrittura di Arthur Schnitzler, di John Coetzee, di Antonio Lobo Antunes, di Robert Musil appare influenzata dalla loro formazione scientifica personale, sia pur in campi diversi.

Nelle arti visuali, pensando ancora all’influenza, possiamo distinguere tra tecniche e temi. Per le prime si va dal modificarsi della variazione di composizione nel tempo delle paste colorate agli sviluppi della fotografia e delle tecniche digitali. Per i temi si può pensare alla rappresentazione del fare scientifico nelle opere d’arte. Johannes Vermeer dipinse “l’Astronomo” e “il Cartografo”, indicando nel primo quadro il processo di astrazione in cui s’imbatte lo scienziato, nel secondo l’attenzione alle applicazioni per ragioni di utilità. L’astronomo si confronta con il voler studiare un sistema di cui fa parte, il mondo, e che non si riesce ad osservare dall’esterno;tocca un mappamondo, solo una rappresentazione del mondo, ma egli fa parte del suo oggetto di studio: ciò che tocca dal di fuori è solo un modello, non il mondo in sé.

Certo, bisogna stare attenti a non interpretare – o perfino desiderare – in maniera programmatica una qualsiasi influenza. «Si ha un bel dire che io derivo da lui, o lui da me; io che non so l’algebra, non capisco una sola parola delle sue teorie. E dubito che lui, a sua volta, abbia letto i miei romanzi», scriveva Proust al suo amico fisico Armand de la Guiche, a proposito di Einstein, nel dicembre 1921.
Evitare di forzare l’interpretazione, anche quando fa comodo, dovrebbe essere la regola. Il problema è come si fa a valutare la forzatura.

Per fare comparazioni tra scienza e arte dovremmo concordare almeno su cosa sia arte e cosa sia scienza. Se della seconda pensiamo di avere un’idea piuttosto precisa, almeno per ciò che riguarda il ruolo e lo sviluppo della matematica, la nostra percezione di cosa sia arte è molto più incerta, semmai manipolata dall’interesse del mercato. Il filosofo Arthur Danto, che tanto ha influenzato la critica d’arte nella seconda metà del Novecento, intendeva le opere d’arte in termini direi linguistici e narrativi; erano per lui tali le espressioni umane che hanno “elementi che l’occhio non può cogliere: un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza di storia dell’arte: un mondo dell’arte”. Qual è, però, l’origine di quel “mondo dell’arte” o del processo interiore che conduce a quella forma di meraviglia che coglie alla visione di un’opera d’arte? Gustave Flaubert suggeriva di lasciar parlare le opere d’arte, e stare lì ad ascoltare.

Il tentativo di Danto e altri di rimuovere l’estetica dall’arte, con l’idea di relegarla a un fatto biologico, un ausilio alla selezione naturale, o di considerarla solo come un lenimento del dolore, ha ridotto sempre più il discorso sul valore a una lotta di potere pubblicitario, e ha sviato l’attenzione da un problema che la scienza pone. Se, infatti, si ha esperienza di prima mano nella ricerca scientifica, ci si rende conto che, in mancanza di dati sufficienti, l’optare per una rappresentazione dei fenomeni in luogo di un’altra (per un modello invece di un altro, quindi) è spesso determinato dal fatto che una opzione dà più di altre una percezione di maggiore “eleganza”. È questo un elemento soggettivo nel ricercatore, ma infine diventa patrimonio comune in ragione dei risultati.

E accade che una scelta indirizzata da un’opzione di eleganza alla fine corrisponda quasi sempre al “vero”, almeno nel senso che fornisce previsioni in accordo ai dati. Del senso estetico nella costruzione dei modelli matematici non riesco a dare una definizione priva di equivoci, come, d’altronde, succede quando si cerca di definirlo in arte. In esso, pero, includo la sensibilità per la riduzione delle ipotesi, la sinteticità delle deduzioni, l’ampiezza delle conseguenze da pochi principi a priori, la forza descrittiva degli strumenti adottati, la possibilità di evitare l’introduzione di elementi ad hoc che determinino una conclusione già immaginata e quindi non derivata rigorosamente da principi primi considerati semplici perché istintivamente paiono di per sé evidenti. L’avverbio che ho appena usato contiene un fattore storico e uno psicologico. L’istinto per le scelte principali, in chi costruisce un modello, è in un certo senso innato, ma è di certo influenzato dall’ambiente storico, dalla cultura del singolo, dal modo con cui quel singolo intende la ricerca, quindi dalle motivazioni intime.

Ci sfugge il perché emerga un’intima bellezza dai modelli matematici della natura. Soprattutto non sappiamo perché siamo in grado di astrarre, partendo dall’esperienza, fino a concepire enti difficilmente visualizzabili, ma con cui lavoriamo e attraverso cui otteniamo risultati.

Il percorso interiore dell’artista e quello dello scienziato sono entrambi modi di rapportarsi al processo di conoscenza. E questo rapporto non ha tendenzialmente l’atmosfera dell’Allegoria della Pittura di Vermeer: il pittore nel pieno del suo fulgore che si confronta con la Storia, in guisa di modella, in piedi di fronte a lui, seduto di spalle. Semmai l’atmosfera è quella dell’artista nel suo studio di Rembrandt: la natura è la tela che si staglia sul cavalletto imponente nel piccolo riquadro, il pittore – e quello siamo noi che cerchiamo d’intendere cosa dipingere, quindi cosa rappresentare – è discosto, quasi impaurito, di certo non domo, in una stanza spoglia in un certo qual modo, una stanza che non rifulge, semmai mostra crepe nell’intonaco. Lì, in quel piccolo quadro di Rembrant, vi è forse una realistica rappresentazione del percorso interiore sia dello scienziato sia dell’artista.

Ho avuto la fortuna di immaginare e poi dimostrare negli anni qualche teorema pertinente alla fisica matematica; ho poi visto da vicino, sin dall’infanzia, cosa sente un pittore quando accosta il pennello alla tela, una matita al foglio di carta, o inserisce il bulino nel legno per incidere. Per quanto io possa sentire, quel percorso interiore di entrambi, così come quello nel filosofo, o in chi solo insegna la storia del pensiero filosofico, oserei dire che, in un certo senso, coincidono.
 

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