Proietti ambientalista. Così “scoprì” l'oro del Salento in un film di Lattuada del 1974

Proietti ambientalista. Così “scoprì” l'oro del Salento in un film di Lattuada del 1974
di Anita PRETI
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Martedì 3 Novembre 2020, 10:14 - Ultimo aggiornamento: 5 Novembre, 11:11

A un fuoriclasse si concede di essere un po' ruffiano. All'occorrenza. Anche se il dubbio resta: forse Gigi Proietti era sincero quando ai microfoni della Rai, in una delle tante interviste, dichiarava che potendo scegliere un posto dove stare avrebbe puntato sulla Puglia. Anche solo per un'estate di vacanza. Eh, già: e come avrebbe potuto mai dimenticare una sfolgorante Lecce, in quella stagione del 1974 (fu una primavera? forse sì) quando il milanesissimo Alberto Lattuada (il regista di Dolci inganni con Catherine Spaak, di Venga a prendere il caffè da noi con Ugo Tognazzi e di tante altre delizie) lo trascinò lì per girare Le farò da padre.
Il colto Lattuada aveva la capacità di far nascere talenti cinematografici, alcuni durevoli (altri non andavano oltre i classici novanta minuti della prima proiezione). Puntò, per quella sortita salentina, su Teresa Ann Savoy, una pudica adolescenziale bellezza inglese.

Di lei, nella finzione cinematografica ma solo alla fine del film, si innamora l'avvocato Saverio Mazzacolli cioè Gigi Proietti, spregiudicato eppure come sempre simpatico nel tentativo di sottrarre (un rapimento, una fuitina?) la giovane (Clotilde, per esigenze sceniche) alla madre, la contessa Raimonda Spina Tommaselli (interpretata da Irena Papas), esponente della nobiltà terriera salentina sulle cui proprietà Mazzacolli ha impiantato un conticino. Vorrebbe infatti appropriarsene (legalmente s'intende, con un matrimonio riparatore) per farne un villaggio turistico. La zona su cui insiste la proprietà Spina Tommaselli è tra il Ciolo e Porto Miggiano e negli anni Settanta ben pochi avrebbero scommesso (quasi nessuno, tranne Proietti) su quello che sarebbe venuto dopo. Siete una manica dei cretini, di ciechi, di sordi, sbraita l'avvocato romano. Questo, intende dire, è come l'oro del Sudafrica, il carbone della Russia il petrolio del Texas. Lasciate che al nord si rompano le corna con le fabbriche, gli scioperi, il petrolio che non c'è. Tutta l'Europa deve venire qui a ubriacarsi di sole vero, di mare pulito. A Mazzacolli poco importa di far calare il cemento su tanta bellezza, lo scempio ambientale trovava in quel momento un paladino solo nel pretore di Nardò, Angelo Sodo, con il coro di pochi altri.


Ecco gli deve essere rimasta da allora la fissa per il Salento al grande Gigi che quasi a fare una burla, l'ennesima, si è involato nel giorno del suo compleanno. Chi se lo dimentica mentre è intento, nel 2003, a San Giovanni, la piazza degli immensi scioperi che una volta usavano e del Primo maggio, dinanzi a tutta Roma, a fare l'orazione funebre per Alberto Sordi e adesso dinanzi a mezza (ma solo per rigore sanitario), in quella stessa Roma, chissà chi la farà a lui.

E quanta gente comunque anche questa volta saluterà il caro tra lacrime e sorrisi, più i secondi delle prime, perché così lui l'ha impostata la vita: na pernacchia e finalmente na risata (perché quando tutti quanti strillano, a un certo punto nessuno sta a sentì e allora sale su dal cuore il quanto detto).


Sono le parole di Te vojo dì, sigla dell'ultimo suo show, Cavalli di battaglia, creato per la Rai tre anni fa e arrivato subito dopo il successo di Una pallottola nel cuore, la serie girata nella casamadre di queste colonne, Il Messaggero, dove c'era una scrivania per lui, Bruno Palmieri, interprete della gloriosa idea del giornalista di strada e di battaglia. E anche qui, destreggiandosi fra i cold case, i delitti irrisolti, di cui era esperto, Gigi Bruno infilava l'artiglio sornione dei romani. Era nato borghese, a via Giulia; era finito nel verde di Roma nord-est ma al cuore papalino della sua città pensava sempre. Andava a fare la spesa al mercato di via Melania come uno qualsiasi di noi, di voi, di loro, la gente comune alla quale ambiva appartenere. Tifava per la Roma, va da sé. E quella Puglia, quel Salento di Le farò da padre, gli rosicava sempre dentro.


Le occasioni per venire quaggiù non se le era mai negate. Per esempio, quando Ferdinando Pinto, il mago del Petruzzelli degli anni d'oro, lo invita a Bari per presentarlo ai proprietari del rinato Kursaal Santalucia (che in quel momento, appena restaurato dall'architetto Paolo Portoghesi, perde sull'insegna il nome del produttore barese che ha finanziato Ludwig di Luchino Visconti) non gli sembra vero a Gigi di mettere le tende a Bari.
Il ricordo più nitido che ne ha è solo quello della cadenza dialettale del suo professore al liceo. È il 1992, l'anno dopo la tragedia del politeama barese, e anche alla città non pare vera una cosa: poter rinascere con spettacoli di qualità, poter mettere il fondoschiena sul velluto di una poltrona ed essere di nuovo comunità. Gigi Proietti porta avanti per parecchio questa direzione artistica e intanto si affacciano nuovi ed interessanti progetti.
Fino a quel momento, se era venuto da queste parti, già da quei frizzanti anni Settanta, lo doveva a Peppino Francobandiera, direttore del Circolo Italsider (un motore di cultura per Taranto) e ad altre altolocate stagioni comunali che avevano il placet dell'Eti (Ente teatrale italiano). A Taranto, come altrove, Proietti aveva portato A me gli occhi please, un canovaccio di Roberto Lerici che gli consentiva la tiritera irresistibile di Pietro Ammicca e il teatro dell'assurdo racchiuso nella telefonata senza interlocutore e qualche petrolinata che gli pareva bella, in fondo non era forse lui l'erede ideale di Giggi er bullo (la creatura più nota di Ettore Petrolini, mattatore d'inizio Novecento). Francobandiera aveva scovato Proietti, nome di punta al solo apparire nel Teatrotenda di Carlo Molfese, un potentino che aveva avuto un'intuizione geniale, il teatro sotto lo chapiteau di un circo collocato in piazza Mancini, a Roma. Da lì lo spettacolo rodato era partito alla conquista dell'Italia: dopo Taranto, Bari al Petruzzelli, e dopo tutto il resto. Da quel momento, per l'attore, la Puglia non fu più solo il ricordo di un set.


E della Puglia gli interessava particolarmente il Salento dove anche lui in fondo aveva lasciato un ricordo perché c'è in giro ancora chi lo rivede a zonzo per Lecce. Con un balzo in avanti, si arriva adesso al luglio 2011 quando per Otranto maestra della cultura, nel fossato del Castello (nella stessa sera in cui Fredy Franzutti mette in scena la sua versione di Romeo e Giulietta), Gigi Proietti si fa voce recitante per Pierino e il lupo di Prokofiev eseguito dall'Orchestra Tito Schipa diretta da Marcello Panni. Terminato il lato compassato del programma, Gigi si lascia andare alle mattacchionate. In fondo non aveva promesso Pierino e altro? Compreso il ricordo di Carmelo Bene, un mio grandissimo amico, veicolato dal comune amore per Ettore Petrolini.

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Per il colto e l'inclita, ci sono poi altre perle: Richard Strauss e Un borghese gentiluomo (lo stesso che il Festival della Valle d'Itria ha presentato quest'estate) eseguito a Bari con il Collegium Musicum diretto da Rino Marrone oppure, e questo ha il sapore di una rarità, la lettura antescenica di una cantata composta da Giancarlo Menotti, commissionata nel 1963 dal Cincinnati May Festival, e rappresentata al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1996: The death of Bishop of Brindisi, la storia dei bambini destinati alla Crociata del 1212 e della disperazione del vescovo vinto dal rimorso per non averlo impedito.


Accanto al sacro, c'è infine il contraltare del profano: la solida amicizia con il superpugliese Renzo Arbore e le loro zingarate canore che revisionavano l'antico concetto della carrettella teatrale. Fantasia allo bando, fantasia sfrenata come quella che servì all'autore per inventare il Mangiafuoco di Pinocchio, rievocato da Proietti nel film di Matteo Garrone appena un anno fa per le strade di Noicattaro.
E quindi chi lo può dimenticare. Tranquillo. Come ha scritto proprio Gigi nella poesia dedicata ad Alberto Sordi tutta la città sbrillucica de lacrime e ricordi. E questa città è così grande adesso: va dalle Alpi al mare.
 

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