Amori, passioni e nemici: la vita spericolata di Maria D'Enghien e Antonietta De Pace

Antonietta De e Maria D'Enghien
Antonietta De e Maria D'Enghien
di Renato MORO
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Domenica 11 Febbraio 2018, 18:31 - Ultimo aggiornamento: 12 Febbraio, 13:27
C’è stato un tempo in cui Gallipoli era una piccola capitale e il suo porto dava riparo alle navi provenienti da mezzo mondo. Venivano a rifornirsi di olio lampante. L’«oro di Gallipoli». Buono, migliore degli altri perché la pietra locale delle cisterne era in grado di raffinarlo dalle scorie che avrebbero potuto far fumo durante la combustione, prodotto nella zona ma anche nel resto del Salento e nel Barese. Gli inglesi non potevano farne a meno per illuminare i loro palazzi e i loro teatri, i francesi anche e si racconta che nel Palazzo d’Inverno, a San Pietroburgo, per ordine dello zar bisognasse alimentare le lampade esclusivamente con l’olio gallipolino. E guai a esaurire le scorte.
Antonietta, bella con i capelli che scendevano sulle spalle e due occhioni neri su un viso pallido come all’epoca doveva essere, era curiosa di conoscere tutto ciò che le girava attorno. Saltava sugli scaloni del palazzo di famiglia, in via Sant’Angelo, e scendendo giù verso il ponte ammirava le navi e le distese di botti sul molo, in attesa di essere imbarcate. Se invece da via Sant’Angelo prendeva il vicolo che scende giù fino al seno della Purità si perdeva ad ammirare il mare e le barche dei pescatori. Proprio su una di quelle barche, quando ormai vecchia e malata tornò nella sua città, una sera d’agosto del 1891 le venne incontro Nicola Patitari. Lui era un poeta, forse era stato segretamente innamorato di lei o forse semplicemente aveva sempre ammirato il suo coraggio di donna rivoluzionaria: quella sera, in ogni caso, le recitò i versi che per lei aveva scritto e conservato gelosamente in attesa del momento giusto.
Antonietta De Pace era nata per essere una “guerriera” e tale diventò. Il papà, un banchiere di origini napoletane, morì prematuramente. Lei studiò sfidando le antiche regole che volevano le femmine chine sul lenzuolo da ricamare, andò a vivere a Napoli, sfidò i Borboni, divenne un punto di riferimento per i mazziniani, organizzò le donne rivoluzionarie e durante i moti del 1848 fu sulle barricate nel centro di Napoli, vestita da uomo, a combattere corpo a corpo contro i soldati di Re Ferdinando II. Accanto a lei, in quei giorni, c’era un altro rivoluzionario salentino: Giuseppe Libertini. Dodici anni dopo, proprio nelle ore in cui i Borbone si rifugiavano a Gaeta per tentare un’ultima resistenza contro l’esercito sabaudo, fu accanto a Giuseppe Garibaldi nell’ingresso trionfale a Napoli. Quel giorno, era il 7 settembre del 1860, alcuni garibaldini sbarcarono nel porto della sua Gallipoli e la gente li accolse facendo festa.
Poco più di quattro secoli prima un’altra donna, anche lei bella e colta e coraggiosa - aveva rischiato la vita per combattere la sua guerra. Era Maria D’Enghien, contessa di Lecce e principessa di Taranto. Vedova di Raimondello Orsini, ucciso durante l’assedio, di fronte aveva le truppe di Ladislao, re di Napoli, intenzionate a far capitolare Taranto. Una battaglia impari, perché i rinforzi attesi non arrivarono. Una carneficina annunciata che lei, dopo aver indossato l’armatura e impugnata la spada, volle fermare. Per salvare la città, per salvare i figli e se stessa. Finì che Maria sposò Ladislao, l’ex nemico, e accanto a lui entrò a Napoli. «Se muoio, muoio da regina», disse a un suo generale che tentava di metterla in guardia contro i vizi e la crudeltà del re, abituale frequentatore di letti di altre donne e molto poco rispettoso delle sue ex mogli.
Due donne speciali Maria e Antonietta. Due epoche diverse e distanti, due salentine che hanno fatto la storia e che in comune hanno avuto tanto, soprattutto un forte senso della giustizia. Una bella sfida a distanza tra chi ha lasciato l’impronta più visibile sul suo tempo.
Era giovanissima, Antonietta, quando la carrozza portava lei e il resto della famiglia da Gallipoli fino a Villa Picciotti, l’odierna Alezio, dove i De Pace possedevano una villa che li ospitava nelle afose giornate d’estate. Uscire dalla città per addentrasi nella campagna era un viaggio che ogni volta le metteva tristezza. I cavalli passavano tra i contadini e tra i bambini che giocavano con poche pezze addosso, spesso malati, affamati, spesso anche orfani a causa della malaria che nelle campagne attorno a Gallipoli e giù fino a Ugento seminava paura e morte. Raccontano che un giorno, lei giovane e ricca, incontrò una donna costretta dal marito a vivere come una bestia. Fuori da casa, in aperta campagna, sotto una specie di baracca, trattata e picchiata come una schiava e costretta a mantenersi addentando rifiuti e avanzi che non poteva spezzare o tagliare. Scandalizzata, Antonietta le regalò dei vestiti e un temperino per tagliare quella specie di cibo. Lei, la moglie schiava, fece di più: conficcò quel coltello nel torace del suo aguzzino quando lui tornò per picchiarla. Fu quell’episodio, raccontano i biografi, a spingerla a studiare giurisprudenza.
La giustizia e le regole erano anche il pallino della contessa Maria. Quando rientrò a Lecce da Napoli, dopo la morte del marito e dopo un periodo passato da prigioniera nelle stanze di Castelnuovo per volere della cognata Giovanna II, nel frattempo succeduta a Ladislao, Maria D’Enghien si impegnò a migliorare la qualità della vita a Lecce. Suoi gli “Statuta” che dettarono nuove regole per una civile convivenza: dalla pulizia delle strade e delle piazze al rispetto dei beni pubblici e privati fino al divieto di usare armi e di avventurarsi nelle corse a cavallo lungo le vie del centro cittadino. Era il 1445. In un certo senso ancora oggi, a distanza di oltre 570 anni, quelle regole sono attuali. Basta, ad esempio, sostituire i cavalli con le moto o le auto.
Maria D’Enghien aveva anche una grande sensibilità artistica. Quando Raimondello fece costruire a Galatina la basilica di Santa Caterina d’Alessandria, dove custodire il dito della santa che aveva portato via dal monastero sul monte Sinai strappandolo con i denti e nascondendolo in bocca, fu la contessa di Lecce a selezionare gli artisti incaricati di affrescare le pareti interne così come ancora le vediamo oggi. E con lei accanto, Raimondello fece costruire anche la guglia di Soleto, oggi uno dei simboli del Salento.
Non fu l’unica, Maria D’Enghien, a conoscere le prigioni napoletane. Più devastante l’esperienza che Antonietta De Pace fece quando fu arrestata perché accusata di cospirazione contro il regno dei Borbone. Era il 1855 e le guardie del re rinchiusero la patriota gallipolina in una cella così stretta che le era impedito persino di inginocchiarsi. Una tortura. Vi rimase una quindicina di giorni in quel buco umido e buio, ma non cedette. La polizia borbonica non riuscì a farle confessare un bel nulla e il processo, durato un paio di anni e 46 udienze, si concluse con la sua liberazione. L’anno dopo Antonietta sposò Beniamino Marciano, un ex prete di Striano, e insieme i due continuarono a far politica e a cospirare.
È accanto al suo Beniamino quando, il 4 aprile del 1893, muore nella casa di Capodimonte. Solo un paio di anni prima aveva cercato in Puglia sollievo per i malanni che si portava addosso e dentro dai giorni della prigionia. Ma né il mare della sua Gallipoli, né i versi del suo amico Nicola Patitari, né le passeggiate nella campagna di Alezio riuscirono a fare il miracolo.
Il 2 febbraio scorso a Gallipoli il Comune ha voluto celebrare i duecento anni dalla nascita di Antonietta e quella è stata l’unica iniziativa di rilievo. Per il resto, a ricordare la figlia del banchiere che combatteva sulle barricate travestita da maschio, ci sono soltanto un po’ di istituti scolastici a lei intitolati e la targa sulla principale via del centro storico, quella che dalla piazzetta antistante il porto conduce fino alla cattedrale. I turisti la chiamano via Adepace e da giungo a settembre la occupano sedendo ai tavolini di bar, pizzerie e rosticcerie o curiosando davanti ai souvenir. Del resto l’argomento Unità d’Italia, passata la sbornia del 150° anniversario, ha perso appeal. “Tira”, invece, l’argomento opposto, ovvero la celebrazione delle vittime meridionali dell’Unità. Il Consiglio regionale ha approvato una proposta che tende a fissare una data annuale per ricordare quelle vittime e solo ieri a Galatone, a una quindicina di chilometri dalla casa di Antonietta, s’è svolto l’ultimo convegno sul tema.
Un po’ più fortunata la “guerriera” Maria D’Enghien. Taranto ha ricordato il suo secondo matrimonio con un corteo storico e Lecce ha recuperato alcuni dei luoghi cui la contessa era molto affezionata, a cominciare dalla torre di Belloluogo. I turisti continuano ad ammirare estasiati la guglia di Soleto mentre gli affreschi di Santa Caterina, a Galatina, sono ormai conosciuti in Italia e nel resto del mondo come una delle meraviglie che il Salento custodisce. Ma c’è chi ha fatto di più. Fernando Natale, pasticciere tra i più apprezzati a Lecce, creatore di un gelato al pistacchio che da solo vale una puntata nel suo negozio di via Trinchese, ha inventato la torta Maria D’Enghien con la quale anni fa ha vinto un concorso organizzato dalla sindaca Adriana Poli Bortone in occasione della Festa della donna. Biscotto alle mandorle verdi, crema al limone, panna fresca e pasta choux. Risultato straordinario, dicono i palati fini. Chissà se la contessa Maria apprezzerebbe. Magari una fetta a colazione, nel giardino di Belloluogo, col suo Raimondello accanto.
 
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