Pappamusci e misteri, la confessione di un crocifero: «Oltre i peccati, la devozione»

I crociferi durante la processione, a Francavilla Fontana
I crociferi durante la processione, a Francavilla Fontana
di Eliseo ZANZARELLI
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Sabato 16 Aprile 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 17:58

A Francavilla Fontana i crociferi sono definiti “pappamusci cu li traj”, giacché oltre a camminare scalzi e a essere particolarmente devoti, nel corso della processione del Venerdì Santo, si trascinano appresso delle pesanti croci lignee per tutti i chilometri previsti dal secolare corteo religioso della Città degli Imperiali. Pur nella massima riservatezza tipica di questi pellegrini scalzi, uno di loro, prima di dedicarsi al suo sacrificio, ha accettato di essere intervistato, poco prima che ieri la processione partisse. 

Da quanto tempo fa questo sforzo e chi glielo fa fare?

«Io non sono un crocifero anziano, lo faccio solo da qualche anno perché ci credo fermamente e, a parte la fatica, mi fa sentire meglio con me stesso»

Quando e perché ha deciso di portarsi appresso questa pesante croce?

«Il primo anno che l’ho fatto volevo semplicemente provarci, dato che avevo sempre osservato dall’esterno i crociferi, poi è diventata per me una cosa importante e ho sofferto a non poterla fare nei due anni di pausa dovuta alla pandemia».

Sì, ma cosa si prova esattamente a fare il crocifero, a sobbarcarsi quel fardello sulle spalle? 

«Si prova qualcosa che ho difficoltà a raccontare, forse sarebbe meglio se lo provasse lei in prima persona. Io sento di riconciliarmi col mondo, per una volta l’anno. È faticoso, certo, ma è bello fare qualcosa in cui si crede, pensando alle persone a cui si vuole bene e pregando, lungo il tragitto, per la loro salute prim’ancora che per la propria». 

Non so se sarei in grado di portare quella croce, ma quanto pesa? 

«Non sono tutte uguali le croci, ma sono tutte in legno. In realtà, penso che nessuno e abbia mai pesate, quella che porto io è abbastanza pesante ma quando la trascini pensi a tutt’altro, non al peso della croce, non siamo mica in palestra».

Lei fa palestra? Suppergiù non riesce a quantificarne il peso?

«No, io non faccio palestra e durante l’anno, a parte le faccende domestiche, questo è il massimo sforzo che faccio sul piano fisico. Non so veramente quanto pesi la mia croce, mi azzardo e le do un’idea, dato che sta insistendo: penso intorno ai 100 chili».

Ma è vero che ci sono anche le croci vuote da dentro e quelle con le rotelle che quindi pesano meno? 

«No, escludo del tutto il fatto delle rotelle, io non le ho mai viste e sono sicuro che non siano mai esistite. Non posso dire se ci siano croci più leggere, forse sì, forse no, ma l’importante è il gesto, ciò per cui uno lo fa». 

Ecco, appunto, lei perché lo fa? È vero che chi fa queste cose ha qualcosa da farsi perdonare? 

«Io credo che tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare, me compreso.

Non parlo di gravi crimini o chissà che cosa, come a volte si sente dire. Magari, come nel mio caso, si tratta soltanto di semplici scrupoli di coscienza o di umile devozione».

È vero che spesso tra i crociferi qualcuno ha avuto problemi con la giustizia e quindi, magari dopo aver sbagliato, nel giorno del Venerdì Santo, chiede a questo modo perdono a Dio e alla comunità? 

«No, non conosco tutti i crociferi. Non ci conosciamo tutti, anzi, è raro che ci conosciamo, quest’anno poi siamo (eravamo, ndr) ancora di più. Spesso ci si veste in zone isolate e all’interno di furgoni. Io ne conosco appena qualcuno e posso assicurare che non ci sono queste situazioni, che reputo credenze popolari o retaggi di un tempo che non esiste più. Io parlo sempre per me stesso: è solo la fede che mi guida».

Cosa prova durante il percorso, cosa prova quando torna a casa?

«Quando si parte, si parte per una missione. Dopo il primo chilometro sopraggiunge la stanchezza, ma poi passa e si prosegue sulle ali della fede e dell’inerzia. Parlo sempre per me: prego per i miei cari, mi scuso per gli errori commessi durante l’anno, alla fine la croce non la sento neanche più, si va avanti di fiducia, fede e inerzia. È un’esperienza spirituale che fatico a spiegare a parole. Quando torno a casa che succede? Mi svesto prima di risalire perché papà ha fatto tardi al lavoro, do un bacio a mia moglie e saluto i miei figli, che non mi vedono ‘vestito’ perché non voglio influenzarli nelle scelte future anche se mi piacerebbe se portassero avanti, per loro volontà, questa tradizione. Poi doccia, antidolorifico sulle scapole arrossate e infine a dormire, perché poi ci sono vigilia (a volte si lavora anche) e Pasqua e devi stare coi tuoi e fargli vivere questo bel momento di rinascita».

Un’ultima domanda: perché ha deciso di fare il crocifero e non il pappamuscio? 

«In passato ho fatto anche il pappamuscio, ma è un’esperienza diversa. Non più bella o più brutta, semplicemente diversa. Durante la processione dei misteri, con quel peso addosso, che un po’ riassume il peso che uno si porta addosso durante tutto l’anno, mi sento peggio ma, alla fine, meglio, con me stesso e con gli altri. Ripeto: sono esperienze che ti forgiano e rendono una persona migliore di fronte allo specchio e nei confronti degli altri. Ora, però, devo andare. Mi raccomando all’anonimato: siamo credenti, non esibizionisti». 

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