«Marcella, omicidio di mafia»: luce sulla morte della 26enne

«Marcella, omicidio di mafia»: luce sulla morte della 26enne
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Martedì 24 Dicembre 2019, 01:07
La verità che Marisa Fiorani cerca da 29 anni l’ha trovata ora. La verità sulla morte della figlia Marcella Di Levrano. Un omicidio di matrice mafiosa. Targato Sacra corona unita. Uccisa, Marcella, per avere avuto il coraggio di rompere il muro di silenzio e di omertà su cui contava l’ascesa della Scu. «Si può affermare con certezza, sia per quanto dichiarato da numerosi collaboratori di giustizia, sia per quanto emerso nel corso dei due maxiprocessi leccesi, come la causa della morte di Marcella Di Levrano sia da individuarsi senza ombra di dubbio nella collaborazione da lei prestata sin dal lontano 1987 con la Squadra mobile della Questura di Lecce».
Vittima di mafia, dunque, Marcella Di Levrano. Parole del pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, Alberto Santacatterina. Parole che si ritrovano nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta che ha visto sei collaboratori di giustizia dare indicazioni ritenute certe e riscontrate anche attraverso gli atti e le sentenze dei due maxi processi, sul fatto che Marcella fu ammazzata per la scelta di rivelare agli inquirenti i misfatti della Scu sanguinaria, spietata e bramosa di denaro. L’omicidio di Daniele Perrone, la latitanza del boss Gianni De Tommasi di Campi Salentina ed i rapporti con i suoi uomini e con Salvatore Buccarella, nonché il pizzo preteso da quest’ultimo dal gestore di una discoteca di San Pietro Vernotico .
La Scu di quegli anni. Era il 5 aprile del 1990 quando il corpo di Marcella fu trovato nel Bosco dei Lucci, fra Mesagne (la sua città) e Brindisi. Era scomparsa da qualche giorno, di lì a poco avrebbe compiuto 26 anni e lasciò una bambina di sei anni, due sorelle e la madre Marisa che di anni oggi ne ha 78.
Marisa che non si è mai fatta soverchiare dal pregiudizio e dalla diffidenza, sostenuta sempre da Libera. La memoria di Marcella per tutti questi anni è stata considerata dai più un ricordo sgradevole: perché fu uccisa a colpi di pietra, come se fosse stato un delitto di impeto maturato negli ambienti della droga piuttosto che pianificato da chi usava kalashnikov, pistole e fucili a pallettoni per eliminare una persona scomoda o un concorrente. Perché era tossicodipendente, perché per un periodo della sua vita aveva frequentato componenti di primo piano della Scu. Come Cosimo Cirfeta, che di lei parlerà nel secondo maxi processo, quello “Gianfreda+75”: «....è stata uccisa perché inizialmente accusava me e Tonio Perrone di avere parlato vicino a lei, in una località sita vicino a Trepuzzi, in un bosco, della soppressione di Daniele Perrone».
Passaggio richiamato dal pm Santacatterina nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta che ha riguardato Eugenio Carbone, Massimo Pasimeni, Giovanni Donatiello ed il fondatore della Scu Giuseppe Rogoli. Non ci sarà un processo per verificare la fondatezza della ricostruzione della Procura antimafia: perché Eugenio Carbone è stato ammazzato (14 settembre del 2000, a Carovigno), ossia l’uomo indicato quale l’autore materiale dell’omicidio di Marcella dai collaboratori di giustizia Gianfranco Presta, Massimo D’Amico, Tommaso Belfiore, Giuseppe Leo, Ercole Penna e Leonardo Greco. Tutti gli altri sono finiti sul registro degli indagati perché i collaboratori li hanno indicati come i mandanti, ma sono rimaste dichiarazioni isolate e prive dei necessari riscontri.
Nessun dubbio, invece, sul movente: «In altri termini, si è accertato come la collaborazione di Marcella di Levrano, che non a caso veniva uccisa pochi giorni dopo il deposito dell’ordinanza di rinvio a giudizio che dava conto delle sue dichiarazioni e le rendeva di pubblico dominio, è stata sicuramente la causa della sua morte», ribadisce il magistrato titolare dell’inchiesta. «E se è ragionevole ritenere che il suo omicidio fosse stato disposto, ordinato o comunque autorizzato dall’associazione mafiosa, che si vedeva compromessa dal suo comportamento, non è stato tuttavia possibile accertare se e da quale dei componenti all’epoca il vertice dell’associazione, sia stato dato mandato di procedere alla sua uccisione».
Era il 24 giugno del 1987 quando Marcella arrivò negli uffici della Squadra mobile di Lecce, accompagnata dall’ispettore Fernando Tomasi. Aveva deciso di dare un taglio netto al passato, di lasciarsi alle spalle la droga e certe frequentazioni pericolose. Per dedicarsi alla figlia. L’ascoltò il dirigente Romolo Napoletano, senza che nulla di tutto quello che raccontò fosse messo a verbale perché Marcella aveva detto in premessa di non volere esporsi per paura di ritorsioni. Fu usato un registratore. E quella scelta coraggiosa, Marcella la pagò con la vita.
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