L'ex tennista Maria Fiume: «Quel torneo vinto 35 anni fa fu il mio gioiello, lo sport mi ha insegnato tanto»

Maria Fiume
Maria Fiume
di Massimiliano IAIA
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Domenica 30 Aprile 2017, 20:55 - Ultimo aggiornamento: 20:58
BRINDISI - Brillante la carriera sportiva. Proprio lei che di brillanti, per un passante incrociato giocato dal destino, negli anni successivi ne ha venduti moltissimi. C’è un filmato ancora disponibile sul web: dopo il punto decisivo, si vede lei che corre felice verso la rete e si dirige per stringere la mano all’avversaria battuta, e in un attimo la raggiungono in campo i suoi tifosi, per abbracciarla e festeggiarla. Loro, i suoi concittadini. Perché non era mai accaduto che una brindisina vincesse un campionato nazionale di tennis organizzato proprio al Circolo di Brindisi. Sono passati 35 anni dal successo di Maria Fiume, in mezzo è passato un mare di emozioni, di partite e di altre stelle. Come Flavia Pennetta, campionessa dai colpi preziosi, un po’ come i gioielli che oggi Maria vende nel negozio di famiglia, in corso Roma. Popolare e amata come allora, perché in tanti ammiravano quel talento emerso così presto, magliettina rossa e capelli biondi raccolti.
Si rivede ogni tanto in quel video?
«Io di quel giorno ricordo tutto perfettamente come fosse ieri. E mi commuovo davvero ogni volta che ci ripenso. Era un’emozione indescrivibile per la sola idea di giocare in casa, davanti al proprio pubblico, tutta la tribuna centrale piena di gente e che incitava il mio nome».
Non era la favorita.
«Ero testa di serie numero 13, ma per aggiudicarmi quel titolo vinsi 17 incontri. Vincevo quasi sempre al terzo set, i miei match erano tiratissimi, puntavo molto sulla resistenza. Non per niente ero anche una maratoneta, allenata da Tonino Perugino e Rino Campeggio. Ma non era solo questione di tenuta fisica».
Cos’altro?
«Nel tennis è fondamentale la psicologia. E io ero abile nell’interpretare le difficoltà e i punti deboli di un’avversaria. Devo molto a chi mi ha insegnato tanto, come Alfonso Pastore, io divenni maestra di tennis già a 20 anni, ma soprattutto con il tempo mi accorgevo di essere diventata maestra di me stessa. Cambiavo le impugnature, studiavo gli angoli, provavo 20 minuti filati di lungolinea, 20 di rovesci, e così via, mi rimettevo sempre in discussione».
Diceva della finale. Cosa provò in quel momento?
«Di fronte avevo la testa di serie numero uno, Federica Bonsignori. L’ultimo punto fu una sorta di psicodramma: realizzo di avere il match point sul servizio, e il braccio mi si blocca, proprio mi si paralizza dall’emozione. Il cosiddetto “braccino” del tennista. Ma avevo tutto il pubblico che mi incitava. Persino i pompieri mi sostenevano, era incredibile. Batto, la prima di servizio entra nonostante il braccio bloccato, l’avversaria getta via la risposta. Lì scoppio in lacrime, un po’ come adesso».
Fu il culmine della sua carriera?
«Mi sono presa altre soddisfazioni, come quella di partecipare nel 1984 a dei Masters con le migliori 16. Ho giocato due volte contro Steffi Graf, ma ho perso in entrambe le occasioni».
Quando decise di lasciare l’attività agonistica?
«Quando iniziai ad avere qualche problema fisico, ma il tennis rimaneva la mia vita. Mio figlio Emanuele nacque mentre ero in campo. Ero il capitano, il mio ginecologo era proprio Angelo Argentieri, che poi divenne presidente del Circolo Tennis. Iniziai ad avere le contrazioni in campo e mi portarono in ospedale».
Negli anni dell’insegnamento vide sbocciare un talento come Flavia Pennetta.
«Era una predestinata, impossibile non accorgersi del suo talento. Con il mio staff la seguivamo anche a parte, e non era semplice perché non era bello creare distinzioni nel gruppo. Lei era così gracile eppure fortissima: 20 giorni dopo aver partorito mia figlia Eleonora, giocai contro Flavia che aveva 13 anni, e persi».
Come si definisce da insegnante?
«È fondamentale avere un rapporto carismatico con il tuo allievo, devi trasmettergli fiducia e lo devi mettere di fronte ad un obiettivo da raggiungere. Solo se è veramente motivato, se ha gli stimoli giusti, allora sarà disposto a venire ad allenarsi anche se piove».
È più difficile oggi fare sport a Brindisi rispetto ai suoi tempi?
«Noi eravamo più “poveri”, nel senso che oggi un atleta ha molti più mezzi a disposizione. Ci sono gli allenamenti computerizzati, i fisioterapisti, persino gli psicologi. E poi oggi i ragazzi hanno un maggior sostegno dei genitori. Io però non posso lamentarmi: i miei credevano nelle mie doti».
E poi, una volta smesso, ha preso le redini della gioielleria di famiglia.
«Io dico sempre che prima le mie pietre preziose erano le palle da tennis, adesso sono i gioielli. Siamo qui dal 1947, quest’anno festeggiamo i 70 anni di attività, e a settembre terremo anche una serie di eventi celebrativi. Devo dire che nel mio rapporto con la clientela lo sport mi ha aiutato molto».
In che senso?
«Ricorda il discorso sulla psicologia, leggere nella mente dell’altro? Ecco, con il cliente cerco di fare la stessa cosa: interpretare il suo desiderio, accompagnarlo nella scelta dell’acquisto in base al gusto che riesco a cogliere».
Così come lo sport, è cambiato anche il commercio in città?
«Naturalmente sì. Bisogna aggiornarsi, innovare, non dare niente per scontato. Ho partecipato a 12 corsi sui diamanti. Ho preso un diploma ad Anversa con l’Igi, l’International Gemological Institute, perché anche in questo campo bisogna studiare, e sapere tutto di ogni pietra preziosa».
Come può un commerciante brindisino contrastare la crisi?
«Sicuramente non ci riuscirà lamentandosi. Nel nostro caso abbiamo fatto una serie di investimenti, nel 2015 siamo rimasti chiusi tre mesi e abbiamo ristrutturato il locale. Ma non è solo questo: non esiste più la figura del commerciante che aspetta il cliente fuori dal suo negozio. Meglio rimanere dentro e aggiornarsi».
L’arrivo dei crocieristi aiuta a risollevare le sorti del commercio del Centro?
«A dire il vero, il target dei turisti degli altri anni era piuttosto basso. Quest’anno la situazione sembra più incoraggiante. Con mio fratello Antonio e mio figlio continuiamo a dare il massimo. Sì, insegno il mestiere anche a mio figlio. E sa come mi risponde? Grazie, maestra».
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