Una ciocca di capelli per inchiodare il suo aggressore: prove e documenti di un processo per violenza di 300 anni fa. Il tesoro nell'archivio arcivescovile

Una ciocca di capelli per inchiodare il suo aggressore: prove e documenti di un processo per violenza di 300 anni fa. Il tesoro nell'archivio arcivescovile
di Lucia PEZZUTO
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Martedì 29 Giugno 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 07:33

Una ciocca di capelli neri racconta una storia di violenza vecchia di trecento anni fa. E’ la straordinaria scoperta fatta nell’Archivio storico del Museo Arcivescovile di Brindisi dove in queste settimane si sta facendo ordine tra una mole di documenti di grande pregio storico. La ciocca appartenuta ad una donna di Torre Santa Susanna è contenuta in un fascicolo giudiziario del 1692 e rappresenta la prova della violenza subita in un processo celebrato dal tribunale diocesano. Il ricciolo nero porta con sé la storia di una donna che davanti al giudice per dimostrare di essere stata picchiata e malmenata da un uomo mostrava una ciocca strappata dei suoi capelli. dalle preziose carte che si trattava di una donna di Torre Santa Susanna che si era rivolta al tribunale religioso per avere giustizia nei confronti di un uomo che si era presentato nella sua taverna e l’aveva picchiata.

La ricerca


«È uno dei pochi casi in cui sia stata la donna a denunciare – ha spiegato la direttrice del museo Katuiscia Di Rocco – normalmente in casi come questi erano i mariti, i fratelli o i padri a rivolgersi al tribunale». Anche questo dettaglio, tutt’altro che trascurabile, contribuisce a raccontare e definire gli usi e i costumi della vita di tre secoli fa. La prova della ciocca di capelli scuri, tra l’altro perfettamente conservata, si trovava all’interno del fascicolo, un piccolo e delicato ricciolo che era stato portato dinnanzi al giudice come prova della violenza subita. La documentazione alla quale è allegata la ciocca di capelli è piuttosto dettagliata e attraverso una attenta lettura è stato possibile ricostruire tutta la storia. «All’interno abbiamo trovato tutto –prosegue Katiuscia Di Rocco – la denuncia verso ignoti, le testimonianze di altre persone e la sentenza di condanna».
In pratica negli atti si legge che la donna aveva sporto denuncia contro ignoti dopo che un uomo si era presentato alla sua taverna e l’aveva picchiata perché l’accusava di aver preso la sua giumenta. In realtà la cavalla era stata portata alla taverniera, che possedeva altro bestiame, da alcuni gendarmi che avevano trovato l’animale nei pascoli vicini. L’uomo accecato dalla rabbia non volle sentire ragioni ed iniziò a colpirla violentemente sino a strapparle un ricciolo. La versione della donna venne confermata anche da altri testimoni uomini. L’aggressore fu così identificato e condannato a pagare 100 ducati alla vittima. Ma questa è solo una dei tanti ritrovamenti, la direttrice del museo Katiuscia Di Rocco e dalle sue collaboratrici in questi mesi si stanno occupando dell’attività di catalogazione di tutti gli atti conservati nella sede di piazza Duomo a Brindisi.

I documenti

Nel museo infatti, sono custoditi gli atti del tribunale diocesano dal 1500 sino ai primi del 1800. Un piccolo tesoro documentale e non solo, evidentemente, dal quale emergono storie di straordinaria quotidianità. Molto significativa anche la storia di una donna accusata di stregoneria. Il procedimento giudiziario risale alla seconda metà del ‘700. A firmare la sentenza a favore della donna è nel 1770 un giudice brindisino Carlo De Marco. “E’ lui, Carlo De Marco, brindisino di nascita e di formazione ed io ne sono orgogliosa e tremo quando leggo il suo nome in calce al foglio- racconta la direttrice Katiuscia Di Rocco- E’ lui a Presiedere e firmare una sentenza storica nel 1770. Cecilia Faragò non è una strega. E’ grazie all’arringa del giovane avvocato appena ventenne, Giuseppe Raffaelli, e alla sua sentenza che il re Ferdinando IV abolisce il reato di “Maleficium” contro le Donne.

E’ una di quelle sentenze che hanno cambiato la Storia e Carlo De Marco ha avuto il coraggio nel 1770 di apporre la sua firma”.


Cecilia nasce in un paesino della Calabria, Zagarise, e una volta andata in sposa a Lorenzo Gareri, si trasferisce a Soveria Simeri dove di mestiere fa l’erborista. Utilizza quindi allume di Rocca, incenso, altea, nasturzio, sabina e salsa solutiva per curare e non uccidere perché per quello basta l’ignoranza. Viene accusata di “fattuccheria”, viene accusata di aver ucciso un uomo con il suo “occhio maligno” e con una polvere magica preparata da un’altra donna, Anna Scarcello, gettatagli addosso da un’altra donna ancora, Laura Fratto. “Il giovane avvocato Raffaelli dimostra con un’arringa costruita sui fatti e con parole del calibro di “grossezza, amarezza, sconcia favola, scellerate menzogne, impostori temerari, collera, balordi uomini e ignoranza” chi sono i veri assassini e costruttori di bugie che hanno fatto imprigionare e torturare Cecilia per impossessarsi dell’eredità che le spetta», racconta ancora la Di Rocco. Il processo ha fine il 29 dicembre del 1770: gli impostori devono pagare 400 ducati alla donna per i danni morali ed un nuovo processo si deve aprire contro di loro. Dopo due mesi i carnefici chiedono scusa a Cecilia e le offrono 1000 ducati perché non li trascini in tribunale. È lei a dover decidere. Una donna e va avanti con il processo.

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