CAPACE DI INTENDERE
Puntando alla non processabilità, durante l’udienza preliminare i suoi difensori hanno chiesto di verificare il suo stato mentale e il giudice ha dato l’incarico allo psichiatra Piero Rocchini. Il risultato fa emergere un Preiti diverso e riporta a galla aspetti rimasti sempre misteriosi in questa vicenda: chi gli ha dato l’arma con la matricola abrasa? C’è un disegno dietro il suo gesto? Di certo c’è che «al momento del fatto - scrive il medico nelle sue conclusioni - l’imputato presentava un modesto disturbo depressivo. Tali componenti non avevano rilevanza psichiatrica forense e dunque per le loro caratteristiche e intensità non incidevano in modo significativo sulla sua capacità di intendere e di volere. Non vi è nulla che possa far dubitare della sua piena capacità di intendere e volere al momento dei fatti». Preiti cosciente, dunque, mentre impugnava la Beretta e faceva fuoco contro tre carabinieri. Non avrebbe, poi, avuto alcuna intenzione di suicidarsi. Rocchini sottolinea: «La spinta suicidaria sembra essersi fermata a livello di pensiero senza alcun reale tentativo di messa in pratica. L’uomo mostra caratteristiche di personalità con larvata costante conflittualità nei confronti dell’ambiente (soprattutto “classe politica”, “Stato” e i suoi rappresentanti). Anziché un autentico desiderio di morte, si rileva una “aggressiva ricerca” di riconoscimento pubblico, con l’immaturo desiderio di trasformarsi in una sorta di eroe vendicatore, pubblicamente riconosciuto».
ALCOL E DROGA
Ci sono, poi, anche altri aspetti che rivelerebbero una personalità diversa da quella che Preiti ha tentato di fornire: abitudine al consumo di alcol e cocaina, fattori che lo predisponevano a passare belle serate. È lui stesso a raccontarlo allo psichiatra: «La cocaina mi faceva parlare, stare bene, pensavo a divertirmi per partecipare al meglio alle mie “seratine”.
Anche se la decisione di venire a Roma l’avevo presa prima di prendere la cocaina». Il sospetto nutrito ora dagli investigatori è che qualcuno lo abbia incitato a compiere quel gesto, e lo abbia anche armato. «Pur se in condizioni di difficoltà e frustrazione - sottolinea il perito - egli ha sempre mantenuto dall’arrivo in Calabria un buon funzionamento sociale (breve relazione con una donna del luogo, frequentazione pressoché quotidiana di un circolo di biliardo con partecipazione a una gara, costanti “seratine” con gli amici fino a poco prima della partenza per Roma) e lavorativo». L’imputato sembra non avere «alcun senso di colpa per quanto commesso». «L’aver scritto alle vittime dichiarando di “non avercela con i carabinieri” colpiti - è ancora la conclusione dello psichiatra - soprattutto se affiancato al desiderio espresso (“dovevo fare qualcosa di eclatante, la gente ne doveva parlare”) sembra dare a tutto questo una diversa valorizzazione: la volontà di conquistare e mantenere il centro del palcoscenico. Le lettere inviate a Giangrande (il carabiniere che ha lottato tra la vita e la morte, ndr) appaiono “strumentali”».